Sequenza di apertura. La macchina da presa è montata in cima alla locomotiva. La linea dei binari taglia l’inquadratura verticalmente, al centro: ai lati si inseguono paesaggi monotoni, interrotti di tanto in tanto da qualche galleria. Il treno sferraglia e sbuffa. Una voce imperiosa racconta: “La ferrovia del Gargano è in esercizio dal 1931: è la prima ferrovia elettrica realizzata in Italia. Il giorno dell’inaugurazione funzionò a vapore per via di un guasto alla centrale. Ma adesso è tutto a posto: ha due milioni di passivo al giorno”. Stacco. Un cartello parecchio malconcio su cui si distinguono poche lettere e due frecce: “Siamo nello sperone d’Italia e questo è il nome del paese”. Stacco. Brevi inquadrature fisse, diligentemente costruite, del paese visto dall’alto: tre-quattro file di palazzi molto bassi, molto simili; i tetti spioventi con le tegole scure formano un motivo uniforme, un pattern geometrico. “Dista in linea d’aria da Roma duecentocinquanta chilometri e somiglia a molti altri della zona. Ha seimila abitanti, posta, telegrafo, telefono, farmacia, parrocchia, carabinieri, elettricità a centocinquanta volts, tutte cose scritte sugli annuari. Il resto bisogna andarlo a vedere perché non è scritto da nessuna parte”. Una donna dall’aria stanca strofina contro un muro un bastone alla cui estremità sono legate delle piume. Titoli di testa.

Le prime scene de L’antimiracolo (Elio Piccon, 1964-5), film che per la storia del cinema non è stato altro che l’ultimo prodotto dalla Lux di Riccardo Gualino, immergono lo spettatore in un Mezzogiorno del tutto estraneo all’euforia che stava investendo l’Italia del miracolo economico e che il cinema, popolare e d’autore indistintamente, dissezionava negli stessi anni con beffardo disincanto. La quotidianità a San Nicandro Garganico è dominata da riti e credenze, superstizioni, usi e costumi che riecheggiano un passato arcaico. Gli abitanti sopravvivono alla meno peggio grazie alla pesca all’anguilla, attività regolata da una cooperativa che sorteggia ogni anno i posti da assegnare in un enorme pantano lontano dal villaggio, nei cui pressi i pescatori migrano con le famiglie durante la stagione di pesca. Al carismatico Zarruccio tocca il lotto peggiore e, dopo una lotta impari con la palude, decide di abbandonare il mestiere, arginare il proprio acro di fango e dedicarsi all’agricoltura, guadagnandosi così la disapprovazione degli altri pescatori. Nicandro è tornato dalla Germania, dove è riuscito a fare qualche soldo, per ritrovare la moglie, vedere nascere il figlio e unirsi agli altri uomini nel pantano. Le vicende dei due giovani pescatori non forniscono molto di più di un pretesto per dimostrare con l’ineluttabilità di un teorema quali possibilità una vita del genere possa concedere. La tragedia che esplode nel finale, dopotutto, è annunciata già dal titolo.

Elio Piccon, come i personaggi del suo unico lungometraggio documentario, è un solido professionista a cui la sorte ha riservato un destino inglorioso. Appreso con profitto il mestiere di operatore da Ubaldo Arata, Piccon si è dedicato per gran parte della propria vita al cortometraggio documentario, a parte che per due marginali incursioni nel lungometraggio di finzione (una, La scoperta, un film di propaganda clericale prodotto dalla San Paolo e destinato ai circuiti parrocchiali, racconta di come un ragazzino con la passione per i fotoromanzi venga intruppato nella gioventù paolina; si ricorda soltanto per la presenza, nel ruolo di protagonista, di un giovanissimo Giusva Fioravanti). Pur praticando con ottimi risultati il sottogenere etnografico di ambientazione meridionale, il regista non entrerà mai del tutto a far parte del clan demartiniano (Di Gianni, Carpitella, Pinna, Gandin, Mingozzi) né riuscirà a ritagliarsi un culto di nicchia come Vittorio De Seta. L’antimiracolo, sulla carta, avrebbe potuto essere l’occasione per un riscatto: una produzione prestigiosa (Franco Cristaldi con la Vides, la Lux e l’Ultra) che avrebbe saputo assicurare una distribuzione decente, un budget rispettabile (cinquanta milioni di lire), tempi e mezzi tali da poter permettere al regista di passare tre mesi nel Gargano per comprenderne la vita e le contraddizioni prima di iniziare le riprese, una storia molto forte. Le circostanze, tuttavia, sanno essere avverse.

Tra le ragioni del fascino de L’antimiracolo, la disinvolta mescolanza di toni e di registri è una delle più sorprendenti. In apparenza, la tradizione etnografica la fa da padrona: l’iconografia del Sud arcaico che negli stessi anni seduceva la demologia e lo studio sul folklore è perfettamente condensata in molte sequenze del film, dove pure non mancano alcuni episodi di un certo interesse scientifico (la festa di san Primiano, la scuola del pianto). Nelle dichiarazioni Piccon tende a rafforzare l’ipotesi etnografica, insistendo, per esempio, sulla necessità di teleobiettivi che gli permettessero di nascondere la propria presenza agli attori-abitanti e garantire che la scena avesse luogo senza l’interferenza della macchina da presa. Nessuna traccia di cinema diretto: inquadrature fisse, movimenti di macchina misurati, quadri animati da un’evidente preoccupazione formale, un montaggio veloce che non si nega qualche concitazione sperimentale, una fotografia laccata, interni bene illuminati. Lo stile non fa il genere, certo. Eppure del film etnografico mancano il rigore, la ricerca dell’autenticità, le inquietudini dello sguardo. A differenza di questo, L’antimiracolo non essenzializza il Meridione in una forma dominata da culti ancestrali, pensiero mitico e magia. L’interesse di Piccon, infatti, risiede nelle forme attraverso le quali l’arretratezza si manifesta nella vita quotidiana, nel lavoro, nel tempo libero di una comunità costretta ai margini della storia. La modernità rientra in maniera surreale nelle sue sue manifestazioni più superficiali, del tutto estranee a ciò che le circonda. È il caso, per esempio, della festa popolare in cui si elegge il mister del paese, consumata al riparo degli occhi delle donne con una serie di ammicchi omosessuali.

Due tensioni spurie, eretiche volendo, situano invece il documentario in territori più familiari, almeno per il pubblico degli anni Sessanta. Da una parte, la narrazione si coagula nelle forme del melodramma a enfatizzare i conflitti al centro della pellicola, aiutata in questo dalle musiche a tratti funebri di Carlo Rustichelli. Piccon costruisce delle storie, talvolta pure volatili (quella di Natalia, la donna che si dice essere una prostituta), e le immerge in un campo di forze dentro il quale è impossibile per i personaggi non annegare [1]. Dall’altra parte, il regista, che non a caso ha lavorato a lungo nei cinegiornali “Mondo Libero”, mette a frutto la lezione del film d’attualità, complici un commento cinico scritto da Adriano Baracco e una serie di scenette di colore a volte umoristiche (il mercato in cui si aggirano bambini nudi, il concorso di bellezza per soli uomini, le competizioni della festa di paese), altre semplicemente immorali (la camera a gas per cani randagi su tutte). In questo senso, L’antimiracolo è parte integrante di un fenomeno curioso della storia del documentario italiano: la traduzione di forme e stilemi del cinegiornale in un’estetica della dissacrazione, dello scandalo e della violenza che, annacquando la dimensione politica di quegli elementi in un populismo sprezzante, mira a solleticare gli istinti più bassi del pubblico. Rispetto alle punte più note del fenomeno, i mondo movie, il film di Piccon ha dalla sua una eleganza formale e qualche fermento umanistico che qua e là lo redimono, almeno in parte, dalle accuse di pornografia morale che erano spesso rivolte al filone iniziato da Gualtiero Jacopetti.

Non abbastanza, tuttavia, da salvarsi da uno degli episodi censori più subdoli e al tempo stesso più esemplari della storia del cinema italiano. La vicenda è abbastanza intricata, l’esito drammatico per la carriera di Piccon. La commissione di revisione ordina un mucchio di tagli e di modifiche del commento che colpiscono le poche scene di nudo, quelle della “sfilata di alcuni invertiti” e qualche accenno anticlericale; non paga, ordina il divieto ai minori di quattordici anni. Intimorita da eventuali rogne, la distribuzione decide pure di far passare il film sotto silenzio. Tutto ciò, però, non basta a non turbare l’animo candido di un avvocato di Bergamo, il quale scrive allarmatissimo al presidente della commissione censura una lettera in cui si denunciano “nudità, sia pure maschili”, “passionalità” e “libidine”, “che, con il resto, creano una tensione erotica nei minori di età”. Nei corridoi del ministero dello spettacolo cala il panico: chi ha ordinato i tagli al film risponde al direttore generale per giustificare il proprio operato ed escludere di aver potuto tralasciare scene e battute “contrarie al buon costume”; un ispettore riconosce nella descrizione dell’avvocato di Bergamo, che peraltro non descrive assolutamente nulla, un’inquadratura della sequenza di Natalia alla spiaggia; il direttore generale si rivolge al ministro degli interni per denunciare “una inquadratura di una donna con i seni nudi” e il ministro, a sua volta, scrive alla direzione generale di pubblica sicurezza per “invitare i dipendenti uffici di P.S. ad effettuare una opportuna vigilanza in occasione della proiezione del citato film”. Il risultato è che grazie a mezza dozzina di lettere e agli scrupoli di un bigotto di Bergamo, ogni nuova proiezione de L’antimiracolo è accompagnata da un poliziotto che dal fondo della sala attende un’inquadratura di un seno che, a quanto pare, non è mai esistita. E non è l’unico “scandalo” [2].

Capita pure che tra la sorpresa di tutti e l’indignazione di molti il film vinca il massimo riconoscimento per il documentario alla 26a Mostra di Venezia (ex-aequo con un’altra gemma meridionalista, Con il cuore fermo, Sicilia di Mingozzi) con una motivazione che recita: “per la riproposta di modi espressivi, nel racconto e nel documentario, che furono cari al neorealismo italiano, e per l’impegno personale del realizzatore nel condurre l’indagine a risultati completamente positivi” [3]. La critica tuttavia è compatta nel rigettare il riconoscimento veneziano: Bianco e Nero, allora su posizioni di centro, dedica al film poche righe in cui lo descrive come una “tediosa raccolta di fotogrammi macabri, quando non di sicuro effetto emetico” e giudica il responso di “inaccettabile parzialità” [4]; Cinema nuovo, saldamente su posizioni marxiste, ospita una lettera con la quale il presidente della giuria veneziana ammette che sì, il premio è importante e il film va beh, ma la motivazione è stata travisata dai giornali e il testo originale riportava la dizione “risultati complessivamente positivi” [5], che è come dire si fa quel che si può.

Le due vicende, quella censoria e quella critica, sono strettamente interconnesse e nascondono, senza mai farlo emergere in termini espliciti, un problema squisitamente politico. Nonostante l’insistenza di Piccon sulla natura etnografica del film, L’antimiracolo viene percepito – a torto – soltanto come un documentario di serie B che tenta di ricalcare la formula di successo dei mondo movie (“travestito da pellicola sexy”, si legge in un trafiletto [6]). Il filone, è stato osservato, ha uno spessore politico nullo: esso mette in campo “una dissacrazione di destra che non punta affatto a mettere in discussione il sistema ma unicamente ad approfittare delle sue contraddizioni più esasperate per imbastirci sopra una speculazione” [7]. L’osservazione non è corretta, anzi, però certamente è sintomatica del disagio con cui la classe intellettuale approcciava la cultura di destra del tempo, specialmente quella in odore di cultura popolare e priva dei quarti di nobiltà accademica; quel che conta qui è che essa coincide con quella che allora era la percezione tanto della critica quanto della censura, con la differenza che la prima censurava e la seconda lasciava correre. I mondo movie, per semplificare, sono abietti, immorali, vomitevoli, razzisti, misogini, moralisti e reazionari. Ma sono anche innocui perché raccontano in fin dei conti che tutto il mondo è paese, che bizzarrie e brutalità esistono ovunque, che tra “civilizzati” e “selvaggi” dopotutto non c’è questa grande differenza, che forse c’è stata un’epoca – chissà quando – in cui i confini erano definiti, i ruoli chiari, i valori rispettati e ora che quell’epoca è passata non ci resta che annaspare nella nostalgia e, nel frattempo, guardarsi attorno divertiti e disgustati. Fare questo gioco con il mondo è un conto, farlo con il Meridione (e, peggio ancora, con il proletariato abbruttito dalla miseria) è un altro: quello del Meridione, per definizione, non è un tema innocuo. Raccontarne l’arretratezza è un’operazione dall’implicito valore politco, che tuttavia L’antimiracolo risolve per tramite di un populismo d’accatto e di una denuncia che non ha né colpe né colpevoli, alienandosi in questa maniera anche le simpatie della establishment intellettuale di sinistra, per non parlare degli apparati governativi. In questo senso, l’apparentamento del film al filone dei mondo movie è un segno della cattiva coscienza della critica, che imprimendo quello stigma nega a L’antimiracolo una qualunque dignità artistica (e intellettuale, e politica) e quindi una benché minima rilevanza. La censura non opera diversamente: imporre tagli e divieti per ragioni di pudore condanna il film all’irrilevanza delle sale di periferia, specialmente se la distribuzione non ne sposa la causa.

A rivedere L’antimiracolo, oggi, si prova il disagio del testimone di fronte alle tante ingiustizie della storia.

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NOTE

[1] Parlando di questo aspetto, Massimiliano Schiavoni convoca il Visconti de La terra trema, un paragone forse arbitrario ma che comunque restituisce bene le tensioni melodrammatiche presenti nel film. Si veda http://quinlan.it/2015/08/27/lantimiracolo/

[2] Per qualche considerazione più generale si rimanda al commento di Emiliano Morreale contenuto negli extra del DVD. La vicenda, che anche Morreale menziona, si può ricostruire tramite la documentazione ora accessibile all’indirizzo http://cinecensura.com/wp-content/uploads/2014/05/P_Lantimiracolo-E.Piccon.compressed.pdf

[3] Citato in Claudio Bertieri, “I documentari”, Bianco e Nero, vol. 26, nn. 10-11, p. 62.

[4] Ibidem.

[5] “Lettere al direttore”, Cinema Nuovo, vol. 15, n. 181, 1966, p. 84.

[6] an., “Film usciti”, Cinema Nuovo, vol. 15, n. 180, 1966, p. 136.

[7] Lino Micciché, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Venezia, Marisilio 1995, pp. 136-137, citato in Marco Dalla Gassa, “‘Tutto il mondo è paese’. I mondo movies tra esotismi e socializzazione del piacere”, Cinergie, n. 5, 2014, http://www.cinergie.it/?p=4288. Oltre a quello di Dalla Gassa, un intervento molto utile per comprendere la natura dei mondo movie è Amy J. Staples, “An Interview with Dr. Mondo”, American Anthropologist, vol. 97, n. 1, 1995.