L'intervento che segue è stato scritto in occasione della prima mostra che mette in dialogo cinema e pittura nel panorama italiano contemporaneo. Come spesso accade lo spunto è stato quello virtuoso dell'occasione di una serie di dipinti, di straordinaria forza espressiva, fuoriusciti dal genio di Giovanni Columbu a seguito delle riprese di Su Re. Nulla a che vedere con i bozzetti preparatori di un film, né con gli appunti visivi che precedono le riprese, ma piuttosto qualcosa che partecipa della stessa urgenza di Su Re ma si traduce in visioni disincarnate, ombre, macchie, spettri di quei corpi che prendono vita nelle riprese. Sono acrilici che mettono in scena non tanto la Passione, quanto una futura Apocalisse, che ha molto a che vedere con il tormento artistico di avvicinarsi a un'idea precaria d'incarnazione.

Questo corpo di opere ha aperto la via per una perlustrazione delle pratiche del cinema italiano attorno al ruolo del disegno e del dipinto nella creazione di un'universo visivo complesso: Giovanni Columbu, con Giona A. Nazzaro e Anna Maria Montaldo, hanno allestito ai Musei Civici di Cagliari (dal 23 luglio al 27 settembre 2015) un percorso che mette insieme generazioni e pratiche eterogenee. Da Scola, Taviani e Bellocchio fino a Frammartino e Marcello (proprio su Bella e perduta), quattordici autori che si avvalgono del disegno (che sia uno schizzo o una tavola, fatto da sé o per interposta persona, che preveda l'uso della fotografia o della computer graphic poco importa) nel definire la propria pratica di cineasti. Il diverso tratto ma soprattutto il ruolo del bozzetto nei confronti del film realizzato sono il segno non soltanto dei diversi orientamenti culturali di chi fa cinema, ma soprattutto di un radicale cambiamento dei tempi di realizzazione di un film, del suo essere sempre di più un seme misterioso da tenere in grembo per anni prima di trovare la sua piena realizzazione. In questo tempo, fatto d'incontri e imprevisti, fioriscono quei segni raccolti nel bel volume della mostra Il di/segno del cinema. Appunti, dipinti e fotografie di quattordici maestri del cinema italiano (Silvana Editoriale), che in alcuni casi sono vere e proprie tracce della resistenza di un'idea.

Il cielo brumoso all’alba dischiude le sue nebbie per lasciare spazio a improvvisi raggi di sole, il mare avanza minaccioso e sublime su scogli aguzzi che mostrano le asperità di una natura indomita che lambisce la civiltà senza riuscire a scalfirla, la luce obliqua della sera regala un ultimo squarcio sulla schiena curva di un anziano contadino che avanza tra i filari di vigneto d’altri tempi. Sono solo alcune delle immagini folgoranti che appaiono nei film di Pietro Marcello: momenti lirici in cui la sapienza della composizione si sposa con la capacità di cogliere la potenza sublime delle luci naturali. Così un film sulla fine dei treni a lunga percorrenza si trasforma in una reinvenzione dell’utilizzo del digitale basso costo in materia espressiva grezza e grumosa (Il passaggio della linea, 2007), la sinfonia di una città dalle intenzioni mitiche diventa occasione per mettere in dialogo la materia del cinema con l’astrazione delle nuove tecnologie (La bocca del lupo, 2009), mentre la pellicola si offre come strumento per immaginare una fiaba italiana ancorata a una tradizione figurale che sembra dimenticata (Bella e perduta, 2015). E se dobbiamo proprio definire in cosa stia la grandezza dell’opera di questo giovane regista di Caserta, con non a caso una formazione artistica (si iscrisse, senza mai terminare, all’Accademia di Venezia), la riscontriamo nel suo sguardo che ha acquisito consapevolezza e gusto da una frequentazione con l’arte, tutt’altro che saltuaria o relegata agli anni della scuola, ma piuttosto una passione coltivata con cura e dedizione.

Al contrario di altri autori italiani che lavorano nel cinema del reale, l’attenzione di Marcello non sembra essere stata toccata dal mondo dell’arte contemporanea (in questo il suo rapporto con la sfera artistica, seppur altrettanto intenso, è da vedersi come speculare rispetto a quello sviluppato da Michelangelo Frammartino che proprio dalle pratiche del contemporaneo e dalla riflessione sul ruolo dello spettatore ha visto scaturire la sua originale idea di messa in quadro). Marcello appare attirato da altro: da un’arte che sappia connettere l’umano a un rapporto escatologico, dal superare uno iato creato tra l’apparente oggettività del mondo rappresentato e la celata impossibilità del coglierne fino in fondo il significato. Non a caso di fronte alle composizioni articolate dei piani nelle sue inquadrature si intravvede il fascino che la pittura allegorica di Paolo Uccello esercita sulla sua formazione. Una passione che lo ha condotto verso oriente a stretto contatto con autori (l’armeno Artavazd Pelechian) capaci di elaborare teorie del montaggio che esaltano questi salti nel buio tra verità lapalissiane e recondite illuminazioni. Ma anche a cercare dei maestri in artisti a tutto tondo, che riflettono sul cinema collocandolo in una tradizione culturale più ampia (la frase di Aleksandr Sokurov "Presto non ci sarà paesaggio alcuno. Ma solamente luce ed ombra espresse in spazi geometrici" esprime una ricerca che è propria nelle intenzioni anche del cinema di Marcello).

Nonostante la sua predisposizione al disegno, il regista non ferma sulla carta le immagini del film che sarà. Proprio perché il tratto veloce e spezzato tipico degli schizzi di Marcello è la maniera per catalizzare energie e far fluire liberamente dei mondi in momenti di stasi del processo creativo. Sulla carta non si ricercano le inquadrature, piuttosto si allena una pratica che poi si farà più sicura e pronta ad affrontare gli imprevisti nel momento delle riprese. Al contempo la tecnica scelta per donare colore alle sue immagini dialoga in maniera profonda con quelle che sono le modalità del proprio fare cinema: l’acquarello, ineffabile e mutevole campitura di tonalità rarefatte dona una certa istantaneità ai suoi lavori, il cui studio riaffiora ma solo come eco lontano. La linea essenziale e l’immaterialità propria dei colori ad acqua riflette una certa precarietà d’immagini sospese, facilmente dissolvibili nuovamente in acqua e macchie di colore, come in un sogno delicato e inespugnabile. Rispetto a tecniche più sfruttate nel contemporaneo, la scelta dell’acquarello è anche una dichiarazione d’intenti, di una certa povertà di mezzi tipica dell’imprevedibile e avventurosa sorte di ogni film di Pietro Marcello dal punto di vista produttivo.  In qualche modo questo “regista indomito” che sfugge perora alle maglie del sistema cinematografico italiano rivendica di fronte a tanti suoi coetanei un cinema in dialogo con le forme più alte (e per questo intransigenti) dell’arte. Il suo resistere e il suo reinventarsi di film in film, battendo una via fuori dalle mode e lontana dai codici, lo colloca tra coloro che ancora credono nel potere del gesto. Un tempo era proprio dei pittori, oggi è trasmigrato nel regno delle immagini in movimento.

(testo pubblicato per gentile concessione di Silvana Editoriale)