La terra di confine tra Messico e Stati Uniti è terra di cinema. Al di là delle produzioni più recenti (da Traffic a Bordertown), quel confine ha svolto un ruolo fondamentale nella storia del cinema: vera e propria frontiera del cinema western – dal carcere di Yuma a Tombstone, al Rio Grande e a Peckinpah soprattutto – e scenografia di uno straordinario capolavoro come Touch of  Evil e della sua immensa prima sequenza.

Questo topos è elevato, in Sicario, a protagonista principale del film. Villeneuve costruisce attorno a tale spazio un thriller robusto ed efficace, configurato secondo tutti i crismi del cinema di genere, senza mai abusarne. Il ritmo serrato delle sequenze che si susseguono, perfettamente sincronizzate in termini di stasi e tensione, dimostrano che, oltre ad aver abbandonato definitivamente il lato più "francese" del suo primo cinema, il regista è approdato alla maturità perseguendo una un cinema "americano" di cui dimostra di conoscere perfettamente la complessità delle regole e soprattutto la ricchezza dei limiti. Anche le sequenze a prima vista più scontate (quelle “americane” nel senso più ottuso del termine – si veda la scena del pub in cui la protagonista fa conoscenza del nuovo collega poliziotto), si rivelano imprevedibili e soprattutto dense di quell’inquietudine e turbamento che il genere impone. A tutto ciò contribuisce anche l’apparente semplicità con cui il regista pone il proprio pensiero nei confronti di quel confine e dell’attualità del narcotraffico che, a quella regione, fa da corollario: nessuna facile denuncia se non come semplice risultato esclusivo della grammatica del genere. Inutile chiedersi, dunque, se si possa o meno spettacolarizzare quel luogo e quelle vicende. Il thriller e l’attenzione dello spettatore vengono prima di tutto, il resto accade come logica conseguenza. Solo chiarendo questi aspetti si può vedere, nella contemporaneità delle immagini di Villeneuve, la limpidezza e l’intensità della rappresentazione classica del cinema come grande narratore di storie. Villeneuve riesce pregevolmente in tale rappresentazione.

Oltre al confine, protagonisti del film sono sostanzialmente l’agente dell’FBI Kate (Emily Blunt) e l’ambiguo Alejandro (Benicio Del Toro, qui speculare al suo personaggio nel film di Soderbergh). Lo scopo di entrambi, ma con motivazioni differenti, è semplice: catturare (o eliminare) uno dei più grandi e crudeli boss del cartello di Juarez, il quale gestisce il traffico di droga e di esseri umani lungo buona parte del confine. L’operazione però non ha regole, ciò che conta è solo raggiungere l’obiettivo. Kate, ignara di ciò, agente scrupolosamente rispettosa delle leggi del suo Paese, simbolo di un animo innocente destinato a scomparire, si unisce ad un gruppo di agenti speciali più simili a un branco di animali selvaggi che a tutori della legge, metafora della parte più oscura e sotterranea su cui si regge il potere americano.

Due scosse di tensione percorrono l’intero film, due devastanti discese all’inferno che avvengono quando si attraversa il confine. La prima accade nel visionario attraversamento della frontiera fra El Paso e Ciudad Juarez. Se in Getaway di Peckinpah quel punto preciso, in cui il confine lineare fra il Texas e il Messico sfocia nel Rio Grande (o Rio Bravo) e con esso si confonde tortuosamente fino al Golfo, sanciva una salvezza, qui avviene esattamente l’opposto. Juarez è terra di combattimenti, di guerra, di corpi mutilati e appesi. Anche nei corpi si gioca lo scacco della coscienza di Kate: lei è l’unica donna, minuta, in mezzo a rappresentanti del maschio animale palestrato, spietato e ubbidiente solo al potere del capo dominante. I suoi colleghi e i suoi avversari sono tutti epigoni di un Rambo senza gloria, abili con mitra e pistole, insensibili alla vita umana e alla sofferenza. In loro compagnia, la determinata ma fragile Kate varca il confine, dove l’esistenza delle donne non è certamente delle migliori, anzi è diventata suo malgrado l’emblema di quella furia e di quella brutalità disumana. Corpi in balia degli eventi, di un flusso di potere inarrestabile: il movimento meccanico dei mastodontici Suv neri, i soldati messicani, manichini armati dal volto coperto sui cassoni delle fuoristrada, corpi scossi dalle difformità delle strade di Juarez, percorse ad altissima velocità. Sincronia perfetta e quindi meccanica di qualsiasi movimento. In tutta questa sincronia la figura di Kate stride, in apnea, ancora nel confronto col corpo, dialetticamente espressivo nello sguardo e nella tragicità del suo impulso vendicativo, di un notevole Benicio Del Toro, e ha luogo un’ulteriore sconfitta. Un mondo di animali (maschi) spietati e senza regole (soprattutto d’ingaggio).

La seconda discesa all’inferno avverrà nel cunicolo sotto al confine. In un tramonto da cartolina, le sagome degli agenti scompaiono lentamente, per sprofondare ancora di più all’interno del Male come unica presenza e della letterale deumanizzazione, resa perfettamente dallo sguardo che si sovrappone alla telecamera a raggi infrarossi, come nella banalità di un crudele videogioco. Kate, senza voler svelare troppo, conoscerà qui il vero volto di quella spedizione, il vero volto di Alejandro e dell'intima coscienza di quel confine così personificato.

Nel riuscitissimo finale di questa storia senza redenzione, senza giustizia e soprattutto senza fine, cosa resta? Nulla se non un ragazzino messicano chiuso nella stanza ad aspettare il padre. Illuminato da un ultimo raggio di sole, ultimo barlume di una debolissima speranza. Probabilmente a breve sostituirà il genitore nel suo lavoro. Nient'altro se non il disincanto della nostra retorica, ingannatrice e abitudinaria, di chi, come su quel campo da calcetto, si ferma per pochi secondi sentendo raffiche di spari poco lontano. Ma poi riprende a giocare come se quella, tutto sommato, fosse l’unica realtà possibile.