Se si dovesse descrivere il cinema di Naomi Kawase con una parola, sarebbe “abbraccio”, il più genuino dei contatti umani. Proprio da un abbraccio (o meglio, dalla ricerca dello stesso) parte la poetica dell’autrice, con quel meraviglioso Embracing del 1992, dove l’incontro definitivo e affettivo tra padre e figlia si fa gesto talmente intenso e struggente da non poter essere rappresentato cinematograficamente, poiché solo nel privato può rivestire un valore realmente rivoluzionario.

L’intero cinema della regista giapponese ruota attorno a delicati equilibri, abbracci che si ripetono ciclicamente ma sempre riletti secondo ottiche nuove: amore e abbandono, tradizione e modernità, genitori e figli. Equilibri caratterizzati da ricerche mai ossessive ma che, anzi, si prendono i loro tempi, in una condizione di rilassata meditazione e di amore per la vita. Perché, sebbene i suoi film siano attraversati da malinconia e sofferenza (basti pensare anche solo al devastante The Mourning Forest), il loro approccio all’esistenza è dominato da un tocco delicato, pudico, femminile e, allo stesso tempo, sacro e rituale. Rituale come la ricetta della marmellata di fagioli azuki che l’eccentrica signora Tokue prepara a mano, faticando e rispettando la materia prima come fosse una persona, insegnando al protagonista Satoru l’importanza delle piccole cose e dell’anima, il cuore che pulsa sotto ogni cosa. Non è un caso, infatti, che il titolo originale del film sia proprio “An”, ovvero la marmellata, l’essenza dei dorayaki, dolce tradizionale giapponese, ma anche spirito della stessa Tokue, una donna costretta alla segregazione e per la quale la cucina è l’unica via possibile di contatto, di abbraccio, con il mondo esterno. 

Tutto il film è incentrato su abbracci irrisolti: tra la signora Tokue e la giovinezza, tra lei e suo figlio; tra Satoru e la speranza; tra la giovane Wakana e la madre assente. I personaggi di Naomi Kawase continuano a vivere presi tra il desiderio di amare, essere amati e il terrore dell’abbandono, sentimenti provati dalla regista stessa nei confronti del padre yakuza. Entità colte tra passato e futuro, dove il futuro lo si vive con i segni del passato incisi su quella tela di sofferenze e gioie che è il proprio corpo. Così come la schiena della Kawase custodisce il tatuaggio del padre – marchiato sulla pelle in un rituale documentato nel catartico Sky, Earth, Wind and Fire -, il corpo prigioniero della signora Tokue è sfigurato da bruciature e malformazioni, memoriali di un’esistenza negata. 

La regista ha sempre avuto l’urgenza di raccontarsi: dapprima con il documentario, ponendosi al centro o come occhio-personaggio delle sue stesse opere (Katasumori) e, pian piano, attraverso le vite degli altri, percorrendo un cammino sincero e struggente che l’ha portata dal particolare all’universale. Un universale che in Le ricette della signora Toku tocca il suo apice con un racconto umanista, minimale, gioiosamente imperfetto eppure estremamente toccante, con quell’inconfondibile cuore che pulsa sotto un approccio estetico armonico, stilisticamente perfetto. Un’opera elegante attraversata da suggestioni sotto traccia e dal non-detto, nella quale il vero protagonista è, ancora una volta, lo sguardo della regista. Fino a che quest’educata ricerca degli abbracci, quest’occhio assetato di realtà e affetti e quest’approccio unico e leggero alla vita domineranno la sua poetica, la Kawase potrà permettersi di girare sempre lo stesso film, convincendoci così ad amare ogni volta di più i nostri tormenti.