«Non c’è altra uscita che l’erba […]. L’erba esiste soltanto tra i grandi spazi non coltivati. Colma i vuoti. Cresce nel mezzo e fra le altre cose. Il fiore è bello, il cavolo è utile, il papavero rende folli. Ma l’erba è straripamento, è una lezione di morale.»

H.Miller

Non è più tanto un segreto che, nel mondo contemporaneo, una delle dinamiche più importanti (e pericolose) sia la polverizzazione delle distanze. La globalizzazione, galoppando a gran velocità, inquadra tutto quello che incontra sulla propria strada, ne ripulisce i margini e lo impacchetta rendendolo sempre a portata di mano. Spazi altri come l’inconscio e le relazioni non fanno eccezione, caduti anch’essi sotto l’egemonia dell’omologazione. Ecco allora che ogni tentativo di resistenza sembra destinato non tanto a fallire, quanto ad affermarsi all’interno del sistema, non avendo più distanze da interporre fra sé e quest’ultimo. Gli spazi (puntuali e ordinati, statistici) sono stati prima depurati dei luoghi (difformi, d’eccedenza zampillante), poi accorpati in uno spazio-unitario percorribile con un click.

È in questa cartografia liscia, senza crepe né erbacce, che s’innesta The Lobster, quarto lungometraggio di Yorgos Lanthimos. Il mondo distopico messo in scena dal cineasta greco non necessita di alcuno sforzo d’immaginazione per essere accostato al nostro: già nella costruzione del suo microcosmo, sopprimendo la distanza tra la società finzionale e quella reale e togliendo quindi il respiro al suo processo allegorico, Lanthimos fa capire dove vuole andare a parare.

Nell’universo di The Lobster i single, allontanati dalla città, vengono costretti a soggiornare in un lussuoso albergo, dove in quarantacinque giorni devono trovare una persona con cui abbiano almeno una caratteristica in comune (condizione necessaria e sufficiente), accoppiarsi e, dopo un breve periodo di incubazione, essere reinseriti in società. Se allo scoccare del quarantacinquesimo giorno la ricerca si sarà rivelata vana, saranno trasformati in un animale scelto da loro stessi il giorno del check-in. L’unico modo per prolungare il “soggiorno” e la ricerca del partner è uccidere, in battute di caccia organizzate dall’albergo, i single-ribelli che si nascondo nella foresta. I conformisti e i ribelli, l’albergo e la foresta. Sembra una lotta tra modelli di vita opposti, ma fin da subito ci si rende conto che la dicotomia è, in realtà, un sistema di vasi comunicanti. L’ordine del discorso, basato su costrizioni e proibizioni, è esattamente lo stesso (nella foresta ad essere vietata è la coppia).

Il protagonista David, conformista “idiota”, fa sempre la cosa giusta nel posto sbagliato (o viceversa), non riesce ad accoppiarsi in albergo e non pensa ad altro nella foresta. David è quindi condannato a una fuga eterna, in un mondo che non ha più zone d’ombra nel quale non esistono più spazi interstiziali “non coltivati” e tutto è adiacente (l’albergo alla foresta, la foresta alla città, la città all’albergo). Nella condizione del “fuggitivo sotto il sole”, The Lobster richiama Blackhat di Micheal Mann, altro bell’esempio di sgretolamento delle distanze e dell’impossibilità di mettersi il proprio nemico alle spalle. Rimangono però due fughe differenti. Quella di Hathaway (protagonista del film di Mann) è sempre in ritardo rispetto all’agilissima ma ristretta milizia terroristica e può risolversi solo in uno scontro frontale. Quella di David si risolve nel movimento stesso, in quanto il nemico (ovvero il conformismo a un sistema tanto razionale da essere inumano) è ovunque ma immobile. Le scene finali, in cui David e la sua amata sostano in quello che sembra un autogrill, non fanno altro che scartare anche la città come meta ultima confermando l’impossibilità d’interrompere la fuga.

Dunque se una speranza c’è (e c’è!) di contrastare l’ordine del discorso di una società dove nemmeno il pericoloso viene più emarginato, ma inquadrato e controllato alla stregua di una variabile statistica, questa risiede proprio nel movimento senza sosta, nel divenire-pericoloso, nel nomadismo. Ed è proprio con il nomadismo di un David sempre fuori posto che Lanthimos prende le distanze dal cinismo, troppe volte accostato (a torto) al cinema del regista greco. Il nomadismo è inoltre l’atteggiamento che ci aspettiamo da Lanthimos stesso, arrivato con The Lobster al perfezionamento della sua macchina filmica, implacabile, asfissiante, ma potenzialmente carica di linee di fuga, grazie soprattutto ai continui cortocircuiti di senso. Uscire dalla comfort zone e iniziare il suo vagabondaggio “idiota”.