Nel suo esordio al lungometraggio, il regista Ferdinando Cito Filomarino tratteggia l’ultimo inquieto decennio della vita della poetessa milanese Antonia Pozzi, dalla sua adolescenza fino alla morte prematura nel dicembre del 1938, quando, appena ventiseienne e senza aver visto pubblicata alcuna delle sue opere, si uccise con un’overdose di barbiturici nel prato dell’abbazia di Chiaravalle. Già nel 2009 Marina Spada aveva proposto una rilettura dell’opera e della figura della poetessa in Poesia che mi guardi, film saggio costellato dal ricco repertorio di filmati e fotografie di Pozzi, il cui obiettivo era riflettere sul ruolo dell’artista e della donna nella società odierna. Il film di Filomarino invece si presenta invece come anti-biopic, non c’è la volontà di narrare organicamente una parabola di vita ma piuttosto di mettere ellitticamente in scena alcuni frammenti dell’universo emotivo e creativo-poetico del personaggio, cercando in questo modo di carpire lo spirito senza profanare il mistero di una personalità così elusiva e vulnerabile ma al contempo febbrilmente appassionata come quella di Antonia Pozzi (qui interpretata da Linda Caridi).

Grazie anche alla produzione di Luca Guadagnino e alla partecipazione di tecnici prestigiosi (come Sayombhu Mukdeeprom, già direttore della fotografia di Apitchapong Weerasethakul, e Bruno Duarte, scenografo di Miguel Gomes), Antonia ostenta una ricostruzione molto credibile e raffinata (si potrebbe dire perfino stylish) della Milano liberty del ventennio fascista e degli ambienti alto-borghesi in cui la poetessa si muove e si relaziona con le persone a lei vicine, in un’atmosfera di apparente mondanità. È propro nella non conciliazione tra l’ambiente chiuso e ingannevolmente ovattato in cui Antonia trascorre la propria esistenza e la sua anima perennemente affamata di libertà ed esperienze che si cela la sua disperazione: vorrebbe rompere i cardini della dittatura privata in cui vive ma viene respinta e liquidata. Ama ma non è riamata, scrive ma quando mostra i suoi versi non è apprezzata, può solo implodere emotivamente. Anche in questo Filomarino è molto attento a non esteriorizzare la sua abissale angoscia, lavora per sottrazione di parole e insiste molto sulla carnalità, come nell’emblematica sequenza in cui il corpo nudo di Antonia si contorce sul suo letto in preda allo struggimento (sotto l’intento un po’ troppo dichiarato del regista di riprodurre plasticamente la scultura di Rodin) accompagnata dalla canzone astorica Va di Piero Ciampi.

Io adesso sono come Tonio Kröger nella tempesta, sono appena uscita dalla riva, vivo ancora di atti che non so tradurre in parole. Forse – chissà – l‘età delle parole è finita per sempre”

Questo era ciò che la poetessa Antonia Pozzi scriveva il 13 agosto 1935, dalla sua casa di villeggiatura a Pasturo, in una lettera all’amico Vittorio Sereni. Condannata alla malinconia e alla solitudine, può trovare sollievo solo nell’aspra purezza della montagna. La sequenza finale del film infatti non corrisponde a quella del suicidio, ma a quella della sua scalata lungo una parete rocciosa; raggiungere la vetta per ritrovarsi, in un atto di fatica suprema e al contempo di vera e propria ascensione lirica, “nella calma olimpica e nella pace arcadica” delle amate Alpi, affrancandosi dalla vertigine del rimpianto e del dolore, poichè “la montagna è la prima che ci insegna a durare, nonostante gli squarci e gli strazi”.

Antonia di Ferdinando Cito Filomarino, Italia/Grecia 2015, 96 min.