Mi piacerebbe fare film così

come i musicisti scrivono una

 sinfonia e i poeti una poesia.

Vojtěch Jasný

Nato nel 1925 a Kelč, in Moravia, Vojtěch Jasný è uno di quei cineasti cecoslovacchi attivi tra gli anni Cinquanta e Sessanta che il tempo ha relegato a un angolo della memoria cinefila. Diplomatosi alla Famu di Praga nel 1951 (al pari della pressoché totalità dei suoi colleghi, coetanei e di generazioni successive), si dedica inizialmente a una serie di lavori firmati insieme all’amico Karel Kachyna, con cui realizza il saggio di diploma Není stále zamračeno. I due continueranno a collaborare sino al 1954, girando otto documentari, per poi realizzare nel 1955 un lavoro integralmente di finzione, Dnes večer všechno skončí. Il primo lungometraggio di Jasný “in solitaria” è invece Zářijové noc (1956), adattamento di una pièce teatrale di Pavel Kohout con al centro il delicato tema del mondo dell’esercito, che viene – nemmeno troppo sottilmente – satireggiato.

La poetica di Jasný si preciserà alla fine del decennio, quando inizierà a collaborare stabilmente – e in maniera determinante per lo sviluppo della sua carriera – con il direttore della fotografia Jaroslav Kučera. Touha, del 1959, è considerato da una parte considerevole della storiografia uno dei più importanti film cecoslovacchi apparsi sugli schermi tra la fine della Seconda guerra mondiale e l’ondata del nuovo cinema degli anni Sessanta, la Nová vlna. Basato su una sceneggiatura di Vladimir Valenta (scrittore-attore che interpreterà il ruolo del capostazione Max in Treni strettamente sorvegliati di Jiří Menzel [1966]), Touha racconta quattro storie, ognuna delle quali corrisponde a una stagione dell’anno e a una fase della vita dell’uomo (alla magia e stupore dell’infanzia seguono le follie d’amore e le illusioni della giovinezza; agli sforzi e alle avversità dell’età adulta fa seguito la solitudine della vecchiaia: alla fine della pellicola, le immagini che mostrano una donna morente sono accompagnate dalla notizia della nascita di un bambino, rimando evidente alla ciclicità della natura). Primo tra i film di Jasný a vincere un premio (seppure minore) al Festival di Cannes, Touha è una significativa anticipazione dei temi e delle scelte stilistiche di Vsichni dobrí rodáci, internazionalmente noto come Tutti i miei compatrioti (o Tutti i miei buoni compatrioti) e conosciuto in Italia con il titolo di Cronaca morava, che il regista girerà nel 1968.

Basata su alcuni ricordi della madre di Jasný, è un’opera la cui gestazione durerà più di un decennio. La prima stesura della sceneggiatura risale infatti al 1956, ma la pellicola entrerà in produzione solo dieci anni dopo. Il regista dichiarerà di aver ricevuto il via libera alla realizzazione da Alexander Dubček in persona, che nel gennaio del 1968 prenderà il posto di Antonín Novotný alla guida del PCC, il Partito Comunista di Cecoslovacchia, dando vita alla breve ma fondamentale esperienza della Primavera di Praga.    Grande successo nelle sale cecoslovacche sul finire del 1968 e vincitore della Palma d’Oro per la Miglior Regia al Festival di Cannes del 1969, Vsichni dobrí rodáci è ambientato tra il maggio 1945 e l’estate 1957, con un epilogo nel 1968. Il film si concentra sulle vicende di alcuni abitanti di un villaggio della Moravia, sette amici che il tempo e i cambiamenti sociali e individuali separeranno: il sarto Franta, detto “Lampa”, Joza Trňa il muratore, l’organista Očenáš, Bertin il postino, František il contadino, e ancora Jakek Fafka e Jořka Pyřk, detto “Lithpy”.

Il film si apre con la Liberazione del maggio 1945, in un clima di diffusa esaltazione. Segue la presa del potere da parte dei comunisti nel febbraio del 1948, l’entrata della Cecoslovacchia nell’area di influenza sovietica (1949), la collettivizzazione delle terre e dell’agricoltura (segnatamente nel segmento quarto e quinto, ambientati a inizio e nell’autunno del 1951, che ritraggono lo scontro tra i proprietari terrieri e i semplici contadini), il progressivo affermarsi di una concezione stalinista della società da parte del PCC (esemplare in questo senso l’episodio ambientato nel giugno 1952, che vede, tra l’altro, l’arresto del prete del villaggio). I successivi segmenti si situano a Natale del 1954, nella primavera del 1955, nell’estate del 1957 e nell’inverno del 1958. Infine, l’epilogo, ambientato nel 1968, è caratterizzato dal messaggio di speranza della Primavera di Praga.

Il racconto è affidato a un narratore, la cui voce è quella di Martin Růžek, attore attivo sin dai primissimi anni Cinquanta. Una figura certamente molto vicina ai personaggi del film – tanto da chiamarli con i loro soprannomi confidenziali -, eppure, al contempo, in grado di superare la dimensione strettamente diegetica, ponendosi al di sopra del racconto, anticipando gli eventi, riflettendo su di essi, finendo per accomiatarsi dai compatrioti del titolo (personaggi e spettatori) nell’epilogo. Come ha acutamente rilevato lo storico Jiří Cieslar, il commentatore di Vsichni dobrí rodáci è un “messaggero dell’autore e personificazione di qualcosa che supera se non la memoria umana, il destino stesso”, una figura che “vibra tra il passato e un orizzonte sovratemporale” (1).

Le vicende dei personaggi si svolgono nel teatro del paesaggio moravo (qui celebrato al pari di quello di Tuha) che, inizialmente idilliaco, sembra prefigurare un futuro di serenità e pace. Al permanere delle caratteristiche della natura e delle stagioni (i mutamenti stagionali sono le uniche “variabili”), si contrappone il cambiamento costante delle relazioni sociali e umane. Tuttavia, in Vsichni dobrí rodáci non troviamo nulla dell’estetica sentimentale e appiccicosa del realismo stalinista, letterario e cinematografico. Quello di Jasný è un lirismo vicino alla celebrazione del paesaggio ucraino di cui è stato capace Aleksandr Petrovič Dovženko. I segmenti del film cecoslovacco ambientati all’epoca della collettivizzazione dell’agricoltura non possono non ricordare da vicino La terra (Zemlja, 1930) del regista sovietico: sia tematicamente (i conflitti tra giovani e anziani, quelli tra i kulaki e i contadini poveri, la celebrazione della continuità del ciclo della natura), sia dal punto di vista rappresentativo, grazie a una fotografia apparentemente neutra capace di ritrarre la forza, i ritmi, l’eterno ritorno delle stagioni (una sorta di panteismo naturalistico, in fondo) e la precarietà dell’uomo e della sua azione. Quella stessa dimensione quasi onirica che domina il finale di Zemlja si affaccia non di rado nel film di Jasný (che non a caso fu criticato da alcuni interpreti per un presunto scarso realismo), pellicola pervasa di momenti puramente visivi, dove le immagini sostituiscono del tutto l’espressione verbale, spesso ridotta a mero accompagnamento del visibile, senza essere in grado di arricchirne il valore significante, già di per sé autonomo e pregnante (2).

Uno dei numerosi aspetti che rendono Vsichni dobrí rodáci un’opera di grande rilievo per una lettura a posteriori del cinema cecoslovacco di quel periodo è la sua posizione nel contesto estetico e produttivo dell’epoca. Distribuito nelle sale nel 1969, il film è per molti versi lontano dalla produzione dominante nel cinema di Praga sul finire degli anni Sessanta. Un cinema che nel corso del decennio si era progressivamente concentrato su ambientazioni cittadine a fronte del massiccio spostamento della maggior parte della popolazione dalle campagne nei grandi centri abitati. Non è questo il luogo per discutere approfonditamente sulle differenze, economiche ed estetiche, esistenti tra i due poli cinematografici cecoslovacchi dell’epoca, Praga e Bratislava. Basti ricordare sinteticamente che nella capitale si concentrava un cinema dalla vocazione maggiormente “metropolitana”, mentre a Bratislava (all’epoca capoluogo della regione slovacca, zona in cui l’agricoltura ha sempre avuto un peso maggiore rispetto a Boemia e Moravia) la produzione era caratterizzata da pellicole di ambientazione rurale, spesso e volentieri esteticamente poste tra la finzione e il documentario (si pensi, per esempio, a Immagini del vecchio mondo [Obrazi starého sveta, 1972] di Dušan Hanák, di cui abbiamo parlato diffusamente altrove). In questo senso, il film di Jasný costituisce una sorta di ponte ideale tra le due “vocazioni” del cinema cecoslovacco del tempo, riuscendo purtroppo a sollecitare l’azione della censura, che lo incluse tra i lungometraggi proibiti dal PCC dopo la parentesi della Primavera di Praga.

Il perdurare del divieto di proiezione dopo il 1970, spingerà Jasný a optare per un auto esilio. Nonostante i tentativi fatti dai dirigenti della cinematografia di Praga per farlo rientrare (tra cui la promessa di lavorare liberamente con produttori stranieri), il regista rifiuterà, recandosi dapprima in Austria e poi nella Germania Ovest (qui, nel 1976 girerà un adattamento di Opinioni di un clown di Heinrich Böll), per poi trasferirsi dalla metà degli anni Ottanta negli Stati Uniti, dove si occuperà anche di televisione e teatro. Nel 1999 Jasný realizzerà Návrat ztraceného ráje (noto internazionalmente con il titolo di Return to Paradise Lost), che segna il definitivo rimpatrio del regista. Con questo film, girato in parte con capitali statunitensi, Jasný rivisita alcuni luoghi al centro di Vsichni dobrí rodáci, raccontando la vicenda (evidentemente autobiografica) di un cineasta che ritorna nel proprio paese natio dopo averlo abbandonato per ragioni politiche alcuni decenni addietro.

NOTE

(1) Jiří Cieslar, “L’esperienza del passato”, in Nová vlna. Cinema cecoslovacco degli anni ’60, Lindau, Torino, 1994, p. 157.

(2) Tra le influenze per la realizzazione del suo film,  Jasný  cita un referente letterario a suo dire determinante: Il placido Don, celebre romanzo di Michail Aleksandrovič Šolochov scritto e pubblicato in Unione Sovietica tra il 1928 e il 1940.