Il mondo salvato dai bambini

Nel 1961, qualche anno dopo aver lasciato Londra e il Free cinema, e poco prima di pubblicare il suo primo libro, Il cielo cade, Lorenza Mazzetti è coinvolta da Zavattini nel progetto di un film collettivo intitolato Le italiane e l’amore. «Zavattini fu l’unico che mi chiamò per girare un piccolo episodio di un film firmato da diversi registi. Poi ho iniziato a scrivere». Così ne parla la stessa Mazzetti nell’unica monografia dedicata a lei e al suo lavoro di cineasta, realizzata da Giorgio Betti, il cui titolo significativo è L’italiana che inventò il free cinema inglese. L’amicizia tra Mazzetti e Zavattini era iniziata a Cannes nel 1956, quando Together vinse il primo premio della sezione dedicata al cinema sperimentale. Il cortometraggio realizzato da Mazzetti per Le italiane e l’amore si intitola I bambini. L’educazione sessuale dei figli. Si tratta di un piccolo lavoro, come lei stessa lo definisce, che non le diede soddisfazione per via dei vincoli produttivi, ma dentro c’è tutto il suo immaginario, quello dei suoi film londinesi, e quello che metterà nei suoi libri. Per lei, il mondo dei bambini è più reale di quello degli adulti. In loro c’è voglia di sperimentare, c’è curiosità ma soprattutto c’è spontaneità. L’irruzione del mondo degli adulti causa confusione, traumi e a volte addirittura dolore. Nel film vediamo un gruppo di bambini giocare allegro e spensierato in un parco. Con semplicità, dopo avere visto una coppia di adulti che amoreggia decidono di giocare a baciarsi. La sequenza mostra maschi e femmine di ogni età che si scambiano baci sulla bocca con molta naturalezza. Giocano al dottore imitando il linguaggio degli adulti, oppure alla guerra fingendo di ammazzarsi l’un l’altro. L’intervento di una mamma scompagina questo equilibrio infantile. Di fronte alla domanda della bambina che le chiede se i bambini prima di nascere stanno nella pancia delle mamme, la madre reagisce duramente, schiaffeggiandola e asserendo che non è vero, che non si devono dire cose così vergognose e che i bambini “li porta la cicogna”. Il film finisce così, mentre la bimba (per altro interpretata dalla figlia di Paola Mazzetti, sorella di Lorenza), continua a piangere e la mamma pensa tra sé che i piccoli devono imparare subito quello che è peccato. Il sesso è un tabù e come tale deve essere rimosso. Il messaggio del film è chiaro: questa bambina dovrà scegliere fra un duplice destino: se crederà a sua madre, diventerà come lei, una borghese bigotta, irreggimentata nel sistema; altrimenti diventerà come Gregor Samsa (protagonista di La metamorfosi di Kafka), e sarà destinata all’emarginazione. La complessità del cinema, e di tutta l’opera artistica, di Lorenza Mazzetti sta nei diversi destini che la società riserva agli individui, ponendoli gli uni a fianco agli altri ma spesso impedendo loro di comunicare e di capirsi. In più occasioni la regista ha affermato che il personaggio di Samsa l’affascinava in quanto le sembrava di sentirsi una outsider come lui. Per capire meglio la complessità di questo sentimento è però necessario ripartire dall’inizio, dai primi film, e non è possibile prescindere dalla biografia di Lorenza.

Il cinema degli outsider

Lorenza Mazzetti è regista e scrittrice (e non solo) e non c’è una scala gerarchica fra le due attività artistiche, anzi tutti i suoi lavori sono in qualche modo collegati. Si diceva che non si può veramente comprendere la sua opera se non si conoscono alcuni episodi della sua biografia. Episodi che lei stessa ha raccontato nei suoi libri, il già citato Il cielo cade (1961) che vinse il premio Viareggio; Con rabbia (1963), in un certo modo la continuazione del primo racconto; Uccidi il padre e la madre (1969) un racconto più dichiaratamente psicanalitico, dove – a differenza dei primi due libri – il  discorso autobiografico è completamente mascherato da quello inconscio; e Diario londinese (2014). Nel diario Mazzetti recupera la memoria del periodo londinese, del suo esordio alla regia e dell’incontro con i protagonisti della nascita del movimento di avanguardia del Free Cinema mescolandovi con piccole varianti alcuni episodi già raccontati in Con rabbia e in Uccidi il padre e la madre. L’inconscio è sempre attivo nella sua scrittura e funziona quasi sempre come filtro della realtà, per cui anche il ripetersi di certi temi non è strano se lo intendiamo in prospettiva onirica. In tutti i lavori di Mazzetti, inoltre, e soprattutto nei romanzi è molto importante distinguere fra contenuto latente e manifesto. La cronologia non pare interessarla, il quando il prima e il dopo non sono per lei importanti, ricordare è prima di tutto una pratica psicanalitica, un atto di recupero del sé, dove qualcosa resta latente, altro è spostato o modificato, e quello che conta è riconoscersi. È molto interessante, per capire questo processo della memoria, leggere l’introduzione della stessa Mazzetti al suo libro Il teatro dell’io, in cui l’autrice, parlando del lavoro svolto con i bambini di alcune zone povere di Roma, descrive il processo di ricostruzione del sé in termini analitici e terapeutici.

Non è possibile dunque raccontare filologicamente la biografia e il lavoro di Mazzetti, qualcosa sfugge o è volutamente tralasciato. Come per tutti i veri artisti, la comprensione della sua opera sarà sempre soggettiva e può basarsi solo su ciò che lei ci mostra e ci narra. Non dobbiamo dimenticare infatti che anche la narrazione autobiografica è per lei creazione artistica.

Poco più che ventenne Lorenza lascia l’Italia e approda a Londra dove, dopo un periodo di vagabondaggi alla ricerca di un lavoro e di una collocazione esistenziale soddisfacente, si iscrive alla Slade School of Fine Arts, e dove – quasi per caso, con gli strumenti tecnici trovati nel laboratorio della scuola, l’aiuto di alcuni compagni e di persone incontrate per strada – realizza il suo primo film, K (1954). Dentro sé portava dei traumi e dei lutti mai elaborati. Lei e la sorella gemella Paola erano rimaste orfane da piccole (la madre morì partorendole e il padre qualche anno dopo in un incidente stradale), erano cresciute con gli zii (Nina sorella della madre e il marito Robert Einstein, cugino del famoso scienziato) e durante la guerra avevano perso tragicamente anche questa seconda famiglia, sterminata dalla violenza nazista in quanto ebrei. Lorenza adolescente vive il dopoguerra e il post trauma lottando inconsciamente fra il desiderio di rimuovere, il senso di colpa per essere sopravvissuta e il bisogno di giustizia. L’arte diventa per lei un modo per elaborare, una pratica psicanalitica (non è un caso che negli anni ’60-’70 si sia occupata anche di psicanalisi sia attraverso il progetto di drammatizzazione dei sogni dei bambini, il cui resoconto è pubblicato nel già citato Il teatro dell’io; sia con la rubrica di interpretazione dei sogni tenuta su «Vie Nuove»). Lorenza disegna tutte le volte che può, ma è con il cinema e poi con la scrittura che riuscirà a trasformare la rabbia e tutti i sentimenti contrastanti che la straziano in qualcosa di socialmente accettabile e a rielaborare i traumi infantili vedendosi dal di fuori.

Quando gira i due film londinesi non ne è consapevole, agisce secondo un’urgenza creativa, ma a posteriori se ne rende conto: «non capivo veramente che cosa volessi dire con questa storia – scrive parlando di Together – solo che mi emozionava la situazione di due persone immerse in un mondo che loro ignoravano e dal quale erano ignorate. Dopotutto io mi sentivo proprio una outsider» (Diario londinese, p. 43).

Metamorfosi

Quando Lorenza Mazzetti gira K, nessuno a Londra pare conoscere La metamorfosi e il suo autore, neppure Michael Andrews, il giovane compagno di studi e futuro pittore che interpreta la parte di Gregor Samsa. Kafka per Lorenza «è il più vicino», la giovane donna ha «messo il suo ritratto in capo al letto» e si sente «come lui» (Diario londinese, p. 20). Per questo Mazzetti comprende Kafka meglio di chiunque altro: «l’autore – spiega la regista ad Andrews – non vuole dire ciò che dice, ma esattamente il contrario. Infatti l’effetto sul pubblico è quello che conta: Gregor, reietto per gli altri, con la sua morte diventa in realtà l’accusatore» (ivi, p. 32). Le daranno ragione anche due filosofi come Deleuze e Guattari: «Kafka sopprime deliberatamente ogni metafora, ogni simbolismo, ogni significazione come ogni designazione. La metamorfosi è il contrario della metafora. Non c’è più né senso proprio né senso figurato ma distribuzione di stati nel ventaglio della parola». La metamorfosi di Mazzetti sta proprio in questa “distribuzione di stati”: non è necessario che Gregor si trasformi visivamente in insetto, la sua è una trasformazione dell’io, da uomo ordinario, esecutore scrupoloso ma già in qualche modo incompreso, a essere immondo perché non conforme al modello sociale. Si veda al proposito la sequenza in cui il protagonista segue il principale nel negozio di stoffe parlandogli del proprio lavoro e della sua famiglia: le frasi (si tratta tra l’altro dell’unico inserto parlato del film) sono ripetute ossessivamente, il tono è monotono, il discorso si riduce a un monologo inascoltato in quanto il principale non pare dargli retta e Samsa ripete con insistenza «Sir, do you hear me?». Il ventaglio della parola è per Mazzetti limitato dai confini dell’alienazione contemporanea, nella quale nessuno ascolta nessuno. In un interessante saggio su K, Marco Duse confronta il discorso di Mazzetti sugli outsider al testo di Colin Wilson dedicato all’argomento dell’alienazione e uscito nel 1956, proprio a ridosso dei film della regista: «Il destino dell’outsider è quello di contemplare e comprendere il mondo, restandone però escluso» scrive Duse, citando poi Wilson: «ecco perché, nonostante sia l’unico a rendersi conto del male che affligge la società a lui contemporanea, l’outsider finisce col “rinchiudersi nella sua stanza, come un ragno in un antro oscuro”». La conformazione caotica della città moderna acuisce la tendenza all’isolamento. Parlando di Londra, la stessa Londra in cui viveva Lorenza Mazzetti, Wilson scrive: «la città in sé, la confusione creata dal traffico e dagli esseri umani in Regent Street, possono sopraffare una personalità debole e farla sentire insignificante». Non è un caso, che quel «Sir, do you hear me?» ripetuto compulsivamente dal Gregor di K ci ricordi un altro outsider, protagonista dell’opera rock Tommy realizzata dalla band The Who nel 1969, per il quale il ritornello, che dà titolo anche a un brano, «Tommy can you hear me?» ne è a tutti gli effetti specchio e prosecuzione. Gregor non è ascoltato, Tommy non può né sentire né parlare né vedere, Lorenza Mazzetti anticipa tutti.

Le consonanze fra il personaggio mazzettiano e l’opera rock degli Who sono solo un esempio di come la trasformazione della società inglese, ed europea, tra gli anni ’50 e gli anni ’70 fu vista e vissuta da molti artisti che portarono in scena i temi dell’alienazione e della sofferenza esistenziale degli individui. Nel rock si possono citare anche i Pink Floyd, nella letteratura si pensi a Samuel Beckett e a quel John Osborne che sarà lanciato proprio da Tony Richardson qualche tempo dopo la presentazione del movimento del Free Cinema.

La ferita che non si vede

«A pensarci bene a me pare che questo scrittore Kafka la pensi proprio come me» scrive Lorenza ed enumera tutti i racconti e le opere dello scrittore praghese nel quale lei si identifica: come il giovane di Il medico condotto sente di avere una grande ferita sanguinante che nessuno però vede e perciò non è curata; come il signor K di Il processo sente di dover essere processata senza avere commesso nessun reato; come il protagonista di Il castello vorrebbe essere ammessa in una comunità per la quale risulta sempre una straniera; come Gregor Samsa di La metamorfosi si sente completamente diversa e alienata (Con rabbia, pp. 100-101).

All’inizio di K, vediamo il protagonista sul bus e poi al mercato di Portobello. Lo scenario è Londra con le sue vie trafficate, i suoi mezzi pubblici, i volti connotati della sua gente, la folla per le strade; per mostrarci lo sguardo soggettivo di Gregor, Mazzetti riprende in diagonale verso il basso le gambe delle persone come tante miriadi di zampette che anticipano la trasformazione kafkiana. L’alienazione novecentesca nasce dal caos della massa cittadina: proprio dove non si è mai soli, l’individualità contemporanea tocca il senso di solitudine più profonda. La letteratura e la cinematografia ne sono impregnati, e Mazzetti assorbe a sua volta. Per essere la sua prima esperienza con la macchina da presa, e nonostante la scarsità di mezzi tecnici e la totale assenza di un budget, K è a tutti gli effetti un’opera completa, che dal personale tende all’universale, molto vicina per scelte stilistiche alle avanguardie degli anni Venti, ma completamente rivolta verso i temi delle neo-avanguardie di quegli anni. Per questo possiamo definire K un prototipo del film successivo, con il quale forma in un certo senso un unico testo. Anche le musiche originali realizzate da Daniele Paris contribuiscono a confermare questo legame tra i due film. Mazzetti ha conosciuto Paris a Roma tramite un amico e gli ha mostrato K. Il musicista resta affascinato dal lavoro di Lorenza e accetta di comporre per lei delle musiche originali. L’incontro fra i due giovani artisti è a suo modo un incontro epocale, ben descritto da Maria Francesca Agresta nel libro dedicato proprio al rapporto fra il compositore e il cinema, rapporto avvenuto grazie a questa prima collaborazione con Mazzetti e poi continuato per molti anni, anche attraverso l’esperienza del Free Cinema. Quando Lindsay Anderson vede K per la prima volta resta impressionato anche dalle musiche e sarà lui a chiedere a Lorenza di coinvolgere nuovamente Paris per la colonna sonora di Together.

Free Cinema

Le gambe della folla come le zampette di un enorme insetto, Samsa che saltella con la sua valigia sui tetti della città, il suo sguardo dall’alto mentre la gru con i suoi ingranaggi lo solleva, la sua soggettiva del tappeto mentre vi striscia sopra… in K ci sono frammenti di memoria cinematografica da Buñuel, Léger, Man Ray, Vertov fino a King Vidor, i quali ben si adattano all’esigenza di raccontare il dramma dello spaesamento in una società che tende a omologare gli individui. Mazzetti crea d’impulso, assecondando un suo bisogno creativo ed esistenziale; ha letto e visto molto fin da bambina, ed è perciò molto ispirata, plasmando la sua opera è capace di molte rielaborazioni, da brava anticipatrice interpreta il sentire del suo tempo, il mood dal quale di lì a poco nasceranno le nuove onde.

«Quando stavo con i miei amici avevo l’impressione di stare con i tre moschettieri: Tony Aramis, Karel Athos, e Lindsay D’Artagnan. Tutti gridavano e parlavano, io capivo a malapena quel che succedeva. L’establishment comunque ebbe quel che si meritava» (Diario londinese, p. 60). Together nasce in un clima di fermento artistico e sociale. Grazie alla visibilità ottenuta con la proiezione pubblica di K alla Slade School, dove è intervenuto anche Denis Forman, direttore del British Film Institute, Lorenza ha avuto un finanziamento per un nuovo film. L’idea si sviluppa durante i vagabondaggi della regista attraverso l’East End e in questa zona sarà girato. Come per il film precedente, Mazzetti trae molto materiale da ciò che vede e sente per strada, e anche se il suo film non ha nulla di documentario, le riprese in esterni di Londra sono documenti di eccezionale interesse. Tutti i personaggi, a parte i due protagonisti, sono “presi dalla strada”, soprattutto i bambini, gli stessi che tanto avevano colpito la regista durante le sue passeggiate nell’East End. E le strade di questa particolare zona di Londra, a quell’epoca ancora visibilmente segnate dalle tracce dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, sono a loro volta protagoniste del film. Location suggestive, caratterizzate da ampi spazi vuoti, viali deserti, mezzi meccanici in movimento che riportano alla memoria altre descrizioni di una Londra alienante e alienata, unreal city per T.S. Eliot, dove i due sordomuti vanno a zonzo pedinati dalla macchina da presa e dai nostri sguardi ma estranei a ciò che li circonda. In certe inquadrature vediamo le loro sagome che si stagliano in controluce come pure ombre. Ma è soprattutto il sonoro a evidenziare lo spaesamento dei personaggi. Mazzetti infatti sceglie di diversificare la colonna sonora, escludendo l’audio quando sono in scena i sordomuti; in questo modo anche gli spettatori sono partecipi del distacco dalla realtà vissuto da chi, come loro, non sente e ha una percezione differente del mondo. I bambini seguono curiosi i due uomini e li prendono in giro senza che loro possano accorgersene. Questo tipo di location, lo stile della fotografia, la predilezione per una tipologia di outsider ingenuo e a suo modo innocente, avvicina Together a un altro film indipendente, praticamente coevo, Little Fugitive, realizzato negli Stati Uniti dal fotografo e videomaker Morris Engel, dalla fotografa e giornalista Ruth Orkin e dallo scrittore Raymond Abrashkin. Lorenza Mazzetti ci dimostra che «sentire equivale a vedere», come afferma Giampiero Frasca in un suo articolo dedicato al film, e in effetti la mancanza di udito provoca una costruzione simbolica del reale altra rispetto a quella di un udente, e un rapporto con i fenomeni diverso. Questa alterità porta uno dei due protagonisti alla morte: nel finale uno dei ragazzini tocca per scherzo il sordomuto interpretato da Michael Andrews che sta seduto come suo solito sul parapetto di un ponte a osservare i lavori del porto; l’uomo, sorpreso dalla spinta inaspettata perché non ha potuto sentire i ragazzi avvicinarsi, cade in acqua, ma non può gridare per chiedere aiuto e non può così essere visto dal suo amico che nel frattempo è sopraggiunto e lo cerca. Essere degli outsider, ci dice Mazzetti, implica dei rischi enormi, e il prezzo da pagare è sempre troppo alto: sia Gregor Samsa sia i due sordomuti soccombono al loro non voler/poter essere integrati nel sistema.

Anche la regista ha rischiato di soccombere e se non è avvenuto è stato anche grazie al valore catartico del suo lavoro, letterario e cinematografico. La vita di questa artista è uno straordinario mosaico di trame. A soli ventotto anni aveva contribuito alla nascita di uno dei più importanti movimenti artistici inglesi del dopoguerra (firmando come è noto il manifesto del Free Cinema con Richardson, Reisz e Lindsay Anderson), vinto un premio al Festival di Cannes, e conosciuto alcuni degli artisti di spicco del Novecento.

Il cinema di Lorenza Mazzetti è un cinema sottilmente drammatico, capace di denunciare le ingiustizie con tratti brevi ma profondi, attraverso la leggerezza del suo tocco e alla spontaneità della sua parola, le sue storie alternano sempre l’ironia al dramma, e la ricerca della spensieratezza e della pacificazione è sempre stata il suo obiettivo.