A quanto dichiara la sua prima didascalia, The Thoughts That Once We Had, nuovo film di Thom Andersen, è “una personale storia del cinema, parzialmente ispirata da Gilles Deleuze”, ossia dai due volumi che il filosofo francese ha dedicato al cinema, L’immagine-movimento (1983) e L’immagine-tempo (1985). Comprensibile che Andersen espliciti la parzialità di questa prospettiva personale, sottolinenando il crinale sottile su cui si concentra questo suo atto memoriale: trasmettere la propria visione attraverso il filtro del complesso apparato concettuale deleuziano, è compito arduo, che comporta il duplice rischio di limitarsi ad illustrarlo servilmente o deformarlo, riducendolo a puro pretesto. Andersen, che nella sua pratica di filmmaker, sporadicamente affiancata alla sua attività di studioso e insegnante di cinema, ha saputo come pochi coniugare vena saggistica e autobiografica, indagine storica rigorosa e intuizioni squisitamente personali, riesce a evitare tali scogli, non solo perché esiste effettivamente una convergenza tra i suoi interessi e le linee di riflessione del filosofo, ma perché ritrova nel testo stesso una tensione produttiva tra teoria e storia, oltre a una pratica della citazione che si traduce in un approccio molto diverso dai suoi precedenti film di montaggio.
Benché il progetto nasca dal corso di introduzione a Deleuze che Andersen tiene da anni alla CalArts, il film non è una lezione su Deleuze, un’illustrazione delle sue teorie supportata da una catalogo di frammenti audiovisivi esemplari. Andersen abbraccia il pensiero del filosofo rispettandone il valore di pratica concettuale, perché i concetti non si trovano, ma si costruiscono, come i film, anche e soprattutto quando sono già stati prodotti. Il pensiero deleuziano è assunto come fosse footage da rimontare e interpolare, recuperando passaggi secondari, facendo collidere punti distanti, scoprendo scorciatoie impreviste, in un pratica di assemblaggio che mantiene sempre in tensione parole, immagini e suoni. Il testo non è tanto reso in immagini, ma tradotto in gesti di montaggio, oltre ad essere a sua volta oggetto di montaggio, come una colonna sonora a cui si sostituiscano le immagini. Così, ad esempio, il commento sul “voltarsi e svoltarsi del volto”, riferito a Dreyer, è inserito dopo immagini di Pedro Costa, Shinoda Masahiro è usato al posto di Hitchcock per descrivere l’immagine-relazione. Inoltre, Andersen non si attiene al profilo autoriale e narrativo che informa il corpus di Deleuze: non solo perché include documentari, immagini di repertorio, reportage, interviste, ma anche perché estrae vigorosamente le immagini dal contesto originario, da funzioni e intenzioni preesistenti. Spesso inserisce frammenti non necessariamente memorabili, che assumono una sorta di incanto allegorico proprio grazie all’arbitrarietà con cui sono inseriti, oppure va a trovare momenti di cinema dove meno potremmo aspettarcelo: in situazioni e personaggi che girano a vuoto, che dormono, che leggono libri o ascoltano dischi. Se ci si aspetta un’antologia di “grandi momenti del cinema” (questo il titolo di lavorazione del progetto), l’effetto è quantomeno spiazzante; forse solo perché tali “momenti” non sono istantanee del passato da incorniciare, ma schegge sottratte alla cronologia, che assumono il loro momento solo nel presente in cui sono assemblate, nel prodursi di un pensiero.
In Los Angeles Plays Itself (2003), l’attenzione si spostava dall’azione in primo piano allo sfondo della città, dal film al suo materiale di costruzione, per restituire a uno scenario appiattito a quinta spettacolare uno spessore documentale, la sua stratificazione storica e sociale. Qui Andersen sembra spingere ancora più a fondo lo scandaglio analitico, prelevando frammenti sempre più circoscritti e indipendenti dall’organismo filmico: con amorosa crudeltà i film sono polverizzati e dispersi in un flusso di coscienza irriducibilmente soggettivo, fatto di micro-pulsazioni intime e sfuggenti, che non smettono però di rifluire in uno spazio memoriale collettivo, dove ogni scarto fra immagini è esposto alle potenze del fuori, della Storia. Estrarre le immagini dal loro contesto per renderle nuovamente produttive, avvolgerle in una nebbia d’indefinito che ne dischiude le possibilità di senso; lasciandole libere da commenti o indicazioni di provenienza, senza l’amalgama del voice over, solo laconiche didascalie su fondo nero, citazioni che sono qualcosa di più e di meno di un commento alle immagini: non le spiegano, ma le dispiegano in un discorso che traspare solo oltre il limite di ogni frammento, nell’intervallo che li separa e li congiunge.
Andersen ha definito il film un musical, non solo per l’importanza che ha la musica, per le divagazioni sul twist e sul rock, ma proprio perché la deriva delle immagini prende spesso un andamento musicale, quasi una traduzione della forma bal(l)ade, che per Deleuze è fra i sintomi del movimento aberrante che insorge nel cinema moderno. Un’andatura girovaga, sonnambula, che procede per salti vertiginosi e pause di riflessione, seguendo la suggestione di un volto o di un luogo, concedendosi digressioni idiosincratiche, fughe di immagini spinte da connessioni intuitive e imprevedibili, pizzicate su personalissime corde affettive. Serie innestate su movimenti e musiche, che spesso slittano oltre le immagini originarie e le travolgono, come nell’infilata di camera-car, che abbandona Jeanne Moreau sul litorale di Nizza (La Baie des Anges di Jacques Demy) e, sulle stesse note di Michel Legrand, aggancia Charlton Heston che sfreccia sulle strade di Tijuana (L’infernale Quinlan), per poi lanciarsi nella folle corsa in chiusura a Il testamento del dottor Mabuse. Intensità affettive che sospendono l’azione e “sogni implicati” che si prolungano in “movimenti di mondo” e trascinano con sé i personaggi: la passeggiata languida di Jeanne Moreau sulle note di Miles Davis in Ascensore per il patibolo o il pulsare felpato della techno che accompagna la fluttuante Shu Qi all’inizio di Millenium Mambo.
Andersen ammette di preferire il primo volume dell’opera di Deleuze1 e sono infatti le principali varietà dell’immagine-movimento (immagine-affezione, immagine-percezione, immagine-azione) ad articolare l’ossatura del suo film. Tuttavia, questa scansione è spesso attraversata e rimessa in discussione da continue interferenze tra i due volumi, tra cinema classico e moderno, proprio come nell’opera di Deleuze del resto. Il privilegio concesso all’immagine-affezione, su cui Andersen apre e chiude il suo discorso, suggerisce un interesse per le soglie critiche dell’immagine-movimento, quelle che sconfinano in un al di qua (l’immagine-affezione appunto) o al di là (l’immagine-relazione) dell’azione vera e propria. Il carattere di sospensione dell’immagine-affezione, individuata nell’intervallo tra percezione e azione come qualità-potenza pura, priva di relazioni, insinua una potenziale rottura nella catena di azioni e reazioni del cinema classico. Questa sospensione, in cui un movimento estensivo si converte in intensità espressiva, in qualche modo prefigura quella “immagine diretta del tempo”, non subordinata al movimento, che per Deleuze caratterizza il cinema moderno: “allentamento dei legami senso-motori” tra personaggio e ambiente, sfilacciarsi del tessuto di azioni e reazioni, emergere di “situazioni ottiche e sonore pure”, in cui sono immersi personaggi “veggenti” e divaganti, testimoni sopraffatti da una realtà insostenibile. Andersen sottolinea l’immanenza del reticolo concettuale deleuziano e al tempo stesso ne rimarca l’implicita prospettiva storica, l’articolarsi dei due volumi attorno alla cesura della seconda guerra mondiale e all’emersione del cinema moderno nel dopoguerra: insiste su questa frattura, la allarga e ne moltiplica i punti d’impatto e deflagrazione: le strade piene di cadaveri nella Leningrado assediata del 1942 e quelle deserte di Parigi percorse dal corteo hitleriano, la Corea e il Vietnam, e poi Hiroshima, buco nero del visibile, che qui è scavato nelle stesse immagini del film di Resnais, sostituendo le repliche alla voce di Emanuelle Riva col rintocco muto e inappellabile delle didascalie: “Tu non hai visto nulla a Hiroshima.”
La carica virtuale di un montaggio affettivo collide con l’attualità delle immagini documentarie, producendo uno scarto sensibile tra la nudità del materiale di repertorio e la spettacolarità che esplode in altri passaggi. A pensarci, nella varietà estrema degli spezzoni inclusi, a mancare è proprio quel cinema realista che Deleuze lega all’insorgere delle “situazioni ottiche e sonore”, fra le macerie della guerra, col neorealismo italiano, e che lo stesso Andersen aveva già a suo modo declinato in Los Angeles Plays Itself, attraverso i film di Kent MacKenzie, Charles Burnett, Haile Gerima, Billy Woodberry. Qui sembra invece attratto da un altro genere di realtà o un’altra intensità nella percezione del reale: il mondo sovvertito della slapstick o del musical, divi che hanno qualcosa di abnorme, eccessivo, Timothy Carey e Marlon Brando, Carmen Miranda e Maria Montez. Quest’ultima, nelle parole del suo profeta Jack Smith, è celebrata come una sorta di medium, che crede nella finzione grossolana in cui è immersa e trasmette a un popolo di spettatori la sua credenza, grazie alla carica allucinatoria della sua atroce recitazione. Alludendo a questo realismo affettivo e paradossale, che infonde vita a un mondo contraffatto e invaso dai cliché, Andersen si distacca dai riferimenti originali per centrare una questione etica al fondo dell’impresa teorica di Deleuze (non solo cinematografica) e ne ribadisce l’urgenza storica: la necessità di credere nel reale. Di fronte alla rottura del legame tra uomo e mondo che individua nei film del dopoguerra, Deleuze assegna al cinema il compito di restituire “una credenza nel mondo… aldiqua o aldilà delle parole” (IT, p. 193), film che diano ragioni per credere in questo mondo, per quanto esso possa ormai apparire come “un brutto cinema”, ragioni che possono trovarsi anche nel mondo difettoso ed eccessivo dei B-movie.
Passando dal camp al rock dei Rolling Stones, dalle rock star inscatolate dalla televisione alle playmate patinate in una villa di LA, Andersen ci trascina lungo una linea di fuga musicale, una deriva che sembra allontanarsi sempre più dal cinema, suggerendo piuttosto quel progressivo divenire cinema del mondo, rispetto al quale la musicalità del montaggio assume risvolti molto interessanti. Andersen rievoca il suo primo atto di pirateria cinefila, quando, non esistendo ancora Betamax e VHS, registrò su nastro la colonna sonora di Acque del sud di Hawks per poterla riascoltare. Ed è proprio questa “scoperta della colonna sonora” a spingerlo a diventare filmmaker: per qualche istante lo schermo vuoto e stranamente riempito dalla voce di Lauren Bacall, concretizza la dialettica tra presenza e assenza di questa immagine cava, che riporta il cinema alla sua natura di iscrizione fantasma, alla sua parentela immaginaria col fonografo. Traccia senza immagine, come le curve dei vinili che suonano in malinconici interni domestici, nella Le Havre di Kaurismäki, in Ghostworld di Zwigoff, dove adolescenti restano in ascolto di vecchi fantasmi del blues: Skip James, Blind Willie McTell, didascalie riportano data e luogo d’incisione dei loro brani, si apre una fessura da cui viene il lamento di un mondo scomparso, condensazione di un affetto nella distanza, “Brecht and blues”.
Lo schermo nero non è solo indice di un’assenza, ma un vuoto scavato nella saturazione di un mondo divenuto cinema, uno spazio liberato, una possibilità di immagine. Dallo spazio sonoro del disco si passa a immagini di natura elementare, paesaggi privi di ogni presenza umana: il cielo e il mare che riempiono l’inquadratura, pura materia a-significante, mondo al di qua dell’uomo, inabitabile, ma che prefigura una terra promessa a coloro che non hanno nulla. Questa visione utopica, del cinema come luogo di restituzione e come oggetto da ripristinare esso stesso, è connessa, al carattere tagliente dell’inquadratura “affettiva”: si vedono alberi che vengono abbattuti, un disboscamento delle immagini come costruzione di spazio “svuotato” e “sconnesso”, uno “spazio qualsiasi” in quanto “locus del possibile”. Nel riconcatenamento di frammenti scollegati, il montaggio opera così una perpetua restaurazione del cinema come materia enunciabile, terreno di virtualità, liberato dall’intrico dell’attuale, dalla saturazione delle immagini. Il cinema stesso si presenta allora come spazio qualsiasi, che si dispiega attraverso le singolarità frammentarie e la loro intensità affettiva. L’affezione non è soltanto un’impronta ricevuta, una traccia, ma una interruzione delle relazioni, una “sospensione del mondo” che permette l’emergere del pensiero; poiché in tale sospensione, piuttosto che nel movimento, “il visibile è offerto al pensiero, come un atto che continuamente nasce e si sottrae nel pensiero.” (IT, p. 189) Dalle nebbie del porto di Odessa a quelle del Trono di sangue, si spande una bruma indistinta, granuli e fiocchi d’immagine senza ancora forma, che figurano l’insorgere e il persistere del pensiero nella sua “incoerenza”, nella sua qualità “incoativa” (qui Deleuze cita a sua volta Jean-Louis Schefer). La temporalità del cinema produce questa intermittenza nel pensiero, tra figure che non hanno ancora preso forma e altre che si disgregano. Perciò Andersen non mette in immagini un pensiero, ma lo traduce in un atto continuamente distruttivo e produttivo, disgiuntivo e connettivo: affida al montaggio la possibilità di pensare il cinema e attraverso di esso. Ogni taglio restituisce le immagini a una nebbia di possibile.
Deleuze invoca “una credenza capace di restituirci il mondo e il corpo a partire da quel che la loro assenza significa” (IT, p. 224). In chiusura, un dittico di letture insiste sull’incorporazione di una distanza, su un venir meno delle immagini come condizione per ritrovarne il potenziale. Un brano di Joseph Roth ricorda un mondo in cui tutto lasciava la propria traccia, impressa nella memoria dalla persistenza dei vuoti lasciati da cose e persone. La poesia di Christina Rossetti, da cui deriva il titolo del film (per tramite di un altro film caro a Andersen, Un bacio e una pistola di Aldrich), invoca ripetutamente un atto di memoria (“Remember me”) per riconoscerne l’inevitabile fragilità di fronte a “oscurità e corruzione”, ma anche il permanere delle sue tracce malgrado tutto. Le tracce dei “pensieri del passato” possono far sorgere nuovi pensieri, infondere nuove credenze: è questo l’intreccio intellettuale e affettivo che percorre il film, autobiografia cinefila e meditazione sulla Storia, che non si sofferma sulle rovine del passato, ma riporta continuamente al presente del cinema, alla necessità che esso continui ad essere una forza creativa nella Storia. Se Deleuze vuole che “il cinema filmi non il mondo, ma la credenza in questo mondo, nostro unico legame” (IT, p. 192), anche per Andersen non si tratta tanto di produrre nuove immagini del mondo, ma di lavorare sulla nostra relazione con le immagini esistenti, con l’immagine che il mondo stesso è diventato, perché solo riarticolando questa relazione si può creare un po’ di spazio, “un po’ di possibile…”
1Cfr. Nick Pinkerton, Interview: Thom Andersen, Film Comment, June 4, 2015 (http://www.filmcomment.com/blog/interview-thom-andersen-juke-the-thoughts-that-once-we-had/).