Il cinema è un gesto che si vede su uno schermo. Questo gesto è il prodotto di una relazione lavorativa che aspira a “dire” qualcosa facendola “vedere”. Alejandro González Iñárritu appartiene alla categoria dei cineasti che questa cosa, abbastanza banale, l’hanno capita solo a metà. Il gesto in Iñárritu, per essere visto deve essere esibito, cosa che ovviamente cambia profondamente il rapporto che si desidera instaurare con un potenziale spettatore. Il gesto, secondo Iñárritu, è il risultato di una condizione lavorativa eccezionale (per esempio il piano sequenza di Birdman, tanto per dire), dichiarata come unica, dalla quale scaturirebbe in automatico l’unicità del gesto e quindi il valore della sua portata artistica. Quella di Iñárritu è una sorta di monetizzazione del gesto filmico la cui progressiva singolarità, unicità, contribuisce alla sua quotazione nella borsa dell’arte. Un cinema sostanzialmente esibizionistico che si rifugia nella feticizzazione dell’arte intesa come unicità della performance; dunque più il gesto è in apparenza radicale, più il film, in quanto oggetto da consumare, acquisirebbe valore.

Cineasta profondamente sopravvalutato, con Revenant – Redivivo firma un oggetto curiosamente contraddittorio. Se da un lato le problematiche irrisolte di Birdman sono evidenti anche in questo caso, il film almeno funziona al minimo come semplice oggetto di consumo. Rispetto al film precedente sono all’opera le medesime presunzioni cosiddette autoriali (in alcuni casi francamente insopportabili), ma se non altro i contributi dei collaboratori del regista sono di un tale livello che il film si lascia se non altro guardare e ascoltare senza fastidi soverchianti. Revenant, una sorta di incrocio da laboratorio fra The New World di Terrence Malick e Corvo rosso non avrai il mio scalpo di Sydney Pollack (i riferimenti al primo sono addirittura spudorati), è interessante proprio in quanto macchina esibizionista. Le performance degli attori e del reparto tecnico sono messi in mostra proprio in quanto uniche, irripetibili (basti pensare alle alitate di Leonardo Di Caprio sull’obiettivo di Emmanuel Lubezki). Il sotto testo, ovviamente esibitissimo di questa strategia, è di affermare che tutto ciò che vediamo sullo schermo è “vero”. Un tentativo di nobilitare il proprio lavoro tentando di scavalcare la macchina della finzione per attingere allo “splendore del reale” del documentario. Il problema, però, è che la finzione è sempre il racconto documentario del lavoro del cinema, laddove Iñárritu tenta di sfondare verso il documentario solo per affermare l’unicità della sua finzione. Il “documentario” come iper-finzione (strategia della quale l’attacco dell’orso si offre addirittura come testo teorico). Ciò non significa che il film sia sgradevole in quanto esperienza cinematografica, ma che è estremamente superficiale nelle modalità attraverso le quali progetta il suo contratto con lo spettatore. Tale equivoco è assolutamente evidente nell’utilizzo che fa Lubezki del grandangolo, impendendo all’immagine della natura circostante (inseguita dal Canada all’Argentina) di dispiegarsi come differenza rispetto al resto del lavoro cinematografico (cosa che sulla carta, a ben pensarci, sembrerebbe proprio il discorso dichiarato dal film: la natura come presenza irriducibile all’uomo). E non è un caso che stretto in questo gioco irrisolto fra dispositivo e progetto, Di Caprio offra del suo sovente geniale lavoro (basti pensare a The Wolf of Wall Street) la versione più banalmente ginnica (e con questo non si vuole minimamente sottostimare l’impegno fisico profuso dall’attore).

Iñárritu è un cineasta del gesto dimostrativo non del vedere: il lavoro del regista è esibire quelli che ritiene essere i segni del suo lavoro, non operare sui segni del mondo e del reale. Un pregiudizio meramente tecnicistico e performativo che se da un lato a volte produce film anche interessanti raramente dà vita a un cinema dotato di respiro e di sguardo. Il paradosso di Revenant è che ci sono molte cose da guardare, ma che non se ne vede nessuna.