In un passaggio del suo romanzo più importante, I mandarini, Simone de Beauvoir si domanda se sia il mondo ad aver bisogno d’amore, come spesso si dice, o non piuttosto l’amore ad aver bisogno del mondo. Ciò che rende ogni infatuazione unica e vitale, sostiene la filosofa francese, è il mondo che ciascun amante apporta alla relazione, e di cui il rapporto d’amore si nutre. Così il processo dell’innamoramento diventa per entrambi i coinvolti un vero e proprio processo gnoseologico, un modo di conoscere il mondo che procede per comprensione piuttosto che per spiegazione, secondo la distinzione proposta da Dilthey tra scienze dello spirito e scienze della natura. Vale a dire un processo conoscitivo che avviene e passa attraverso, includendolo e sconvolgendolo, il soggetto conoscente. Il secondo lungometraggio di Jõao Nicolau propende, come de Beauvoir, per la seconda ipotesi.

John From, presentato in concorso al 33° Torino Film Festival, è una storia ordinaria, addirittura banale. Durante una lunga estate passata in città, la quindicenne Rita (l’esordiente e promettente Julia Palha) si invaghisce del suo nuovo vicino, un padre single quarantenne. L’uomo sta allestendo una mostra nel piccolo circolo di quartiere su un suo viaggio in Melanesia, di conseguenza l’innamoramento di Rita passa tanto attraverso i pedinamenti e i goffi tentativi di approccio del vicino, quanto attraverso la progressiva fascinazione per la storia e le abitudini degli indigeni. Tanto che il vicino stesso viene ribattezzato “John From”, come dai papuasi venivano chiamati (contraendo la formula di presentazione “I’m John from America”) i soldati approdati sull’arcipelago per difenderlo da una probabile invasione giapponese durante la seconda guerra mondiale, figure centrali del cosiddetto “culto del cargo”.

Anche agli occhi della ragazzina il suo vicino sembra piovuto dal cielo a portare una ventata di novità e magia nella sua quotidianità ordinaria e annoiata, e grazie a questo esotismo (sia in senso letterale che per via dell’age-gap che divide i due) assurge ad emblema del bisogno di dare un volto e un corpo al radicalmente Altro di cui si è in attesa nella fase puberale, simboleggiando la scoperta del sesso, desiderato ma ancora sconosciuto. Il film accompagna magistralmente questa scoperta da parte di Rita e presenta la sua quotidianità con inedito realismo nel suo rapporto con i genitori, con l’amica del cuore, e soprattutto con l’ambiente circostante. Si tratta della periferia di Lisbona, lontana dai drammi del degrado e della crisi ma fatta di palazzoni e grandi porzioni di cielo. Sembra proprio questo onnipresente azzurro, colore del torpore estivo per eccellenza, a portarla a cercare un po’ di Papua Nuova Guinea in giardino, parafrasando una canzone straordinariamente analoga nei temi e nei toni.

La leggerezza e l’ironia benevola con cui Nicolau mette in scena questa prima parte “realistica” del film ricorda un’altra opera molto sottovalutata nella rappresentazione dell’adolescenza ovvero Il tempo delle mele, che sembra quasi citato alla lettera nella scena della festa tra coetanei. Ma via via il film prende tutt’altra strada, e la realtà si trasfigura nella fantasia (erotica ed esotica) di Rita. La capacità di far incontrare banalità, universalità, realismo quasi documentaristico con la dimensione della surrealtà (la finzione che, generata dalla testa della ragazzina arriva a contagiare la macchina da presa e perciò la realtà che questa ritrae), è analoga a quella di Miguel Gomes nel suo recente capolavoro As mil e uma noites, che vede non a caso Nicolau al montaggio. La riflessione sul rapporto tra finzione e realtà è analoga, tuttavia non c’è traccia dello sforzo ponderoso, sia artistico che politico, di Gomes in John From, che resta un discorso puramente psicologico e ne rappresenta il contraltare “leggero”.

Eppure il film di Nicolau ha un grande pregio, oltre alla sua innegabile godibilità. La rappresentazione al cinema del desiderio femminile, persino e soprattutto nel cinema d’autore, assume spesso un carattere tragico. Addirittura, in ambito italiano, è stato coniata l’ironica definizione di “Sindrome della poiana” – dal film L’altra metà dell’amore in cui una delle due protagoniste si suicida lanciandosi dal tetto di un collegio femminile con il suo animale da compagnia, per l’appunto una poiana. Questa gratuita tragedia, quasi un’inconscia espiazione del peccato attraverso la punizione, è una costante nella messa in scena del desiderio femminile tutto, non solo di quello omosessuale, e ancora di più nella rappresentazione del desiderio femminile adolescenziale. Viceversa, tanti film sullo stesso tema, anche nel registro della commedia, puntano a sfruttare l’elemento alternativamente per sconvolgere o attirare lo spettatore. Nicolau, nella sua rappresentazione delicata e intelligente del desiderio femminile come chiave per sfuggire alla routine e aprirsi al mondo, riesce a farne un discorso universale e assolutamente empatico. In John From c’è gioia non solo senza punizione, ma oltretutto senza scandalo, senza provocazione.

“Pura” (per l’appunto) gioia, e questa è la sua poesia: questa miracolosa (surreale, anch’essa?) radura di desiderio senza punizione né sfruttamento. Una boccata d’aria fresca.