– Non odi tutto questo?

– Odio cosa?

– I silenzi che mettono a disagio. Perché sentiamo la necessità

di chiacchierare di puttanate per sentirci più a nostro agio?

– Non lo so. È un’ottima domanda.

(Pulp Fiction)

In letteratura si rimprovera a Hemingway di aver raggiunto troppo presto la maturità del proprio stile. L’asciutta concisione della scrittura di Fiesta (1927) e Addio alle armi (1929) si è trasformata presto in maniera, sacrificando la freschezza e la portata di innovazione che la caratterizzava in origine. Avere e non avere (1937), Per chi suona la campana (1940), Al di là del fiume e tra gli alberi (1950) non sono necessariamente romanzi peggiori; anzi, in alcuni casi sono persino più articolati e raffinati, eppure a nessuno verrebbe in mente di preferirli ai primi. Forse perché non fanno che andare nella medesima direzione: non più a fondo, semplicemente oltre. D’altra parte, se avete scritto a ventisette anni racconti come “I sicari”, “Colline come elefanti bianchi” o “Un idillio alpino” – testi che contengono in nuce buona parte della narrativa americana del ‘900, da Salinger a Carver, da Mailer a Bret Easton Ellis – l’abilità con cui padroneggiate la vostra arte vi si ritorcerà contro.

Lo stile di un regista come Quentin Tarantino va in tutt’altra direzione, e non lo si può certo definire un minimalista, anche se Le iene (1992) faceva della sottrazione un elemento portante della propria struttura narrativa: come in una tragedia greca (quante volte lo si è detto?) si lasciava fuori campo l’antefatto (la rapina) e si mettevano in scena le conseguenze. Due anni dopo, con Pulp Fiction (1994), la struttura stessa del racconto veniva sconvolta, si intrecciavano le sorti di almeno una dozzina di personaggi, in una versione più consapevolmente low brow di quanto aveva appena fatto Altman con I protagonisti (1992) e America oggi (1993), e sicuramente con meno compiaciuta gravità di quanto avrebbe fatto qualche anno dopo il dichiarato erede di Altman in Magnolia (Paul Thomas Anderson, 1999). Dal punto di vista stilistico, in Pulp Fiction non c’era niente che non avesse realizzato John Boorman venticinque anni prima in Senza un attimo di tregua (1967 – per non dire degli stratagemmi narrativi presi di peso da Un bacio e una pistola [1955] e Rapina a mano armata [1956]), ma l’abilità di dare vita a sequenze dichiaratamente cult, il riuscito mix di ironia e violenza, il susseguirsi di dialoghi che rivelavano le ossessive idiosincrasie dei personaggi, colpivano nel segno. Di più: si raggiungeva il limite di quanto era possibile fare in tal senso, perché andare oltre avrebbe significato perdere in compostezza, gusto e misura.

Jackie Brown (1997), si disse, rivelava la raggiunta maturità del regista. Era senza dubbio un’opera più posata, malinconica, meno gigiona anche se non meno citazionista. La maturità stava dunque in questo? Nel suo essere un film meno scanzonato? Nei minori spargimenti di sangue? Nell’atmosfera più nostalgica? Cosa avevano di male il ritmo forsennato, la sbruffoneria e i cervelli spiaccicati sul lunotto posteriore? Niente. E Tarantino la sapeva, tanto che, con Kill Bill (2003/4), è tornato esattamente lì, a una violenza ancora più esibita, alla spavalderia propria di chi ha divorato cinema di genere in tutte le salse e sa come cucinare un piatto nuovo con ingredienti già masticati e rimasticati per un trentennio buono. Tutto ciò di cosa era segno, espressione? Della volontà di un regista di mandare all’aria la maturità acquisita per tornare a divertirsi come un adolescente?

La verità è che non è Jackie Brown il film della maturità di Tarantino ma Pulp Fiction, e tutto ciò che è venuto dopo non è stato altro che un costante fare i conti con questo. Le evidenze: Tarantino ha mai scritto un dialogo migliore da quello messo in bocca a Christopher Walken e Dennis Hopper in True Romance (Tony Scott, 1993)? Forse gli si avvicina qualche scambio tra Jonh Travolta e Samuel L. Jackson, ma niente di quanto fatto in seguito. L’utilizzo della musica è migliorato con il passare degli anni? No, è solo andato nella direzione del pastiche, facendosi semmai più invadente nei confronti dell’immagine, almeno a partire da Kill Bill, dove la sfrontatezza dell’accostamento e la continua ricerca di scene madri, una via l’altra, segna il discrimine tra la produzione precedente e quella successiva, tutta votata all’epurazione dei silenzi, delle pause, degli interstizi di vita dei personaggi fuori dal loro essere tali e doverlo costantemente dimostrare. Cos’hanno da invidiare, infatti, i protagonisti di Pulp Fiction a quelli dei presunti film della maturità? Gli appassionati citano a memoria le frasi messe in bocca a Vincent Vega o Jules Winnfield, ma c’è da chiedersi perché un ruolo come quello toccato a Bruce Willis (il pugile Butch Coolidge) nello stesso film non abbia più trovato spazio nella produzione a venire. Troppe poche frasi a effetto? Troppa tridimensionalità? In questo senso, sì: Jackie Brown andava nella giusta direzione, ma si tratta di un film più contratto e meno libero di quello che l’ha preceduto.

E arriviamo alla cosiddetta “svolta politica” nel cinema del regista. Un ulteriore passo verso una ricercata maturità d’autore, che ora passa per un confronto non più con la storia ma con la Storia. Bastardi senza gloria (2009), Django Unchained (2012), The Hateful Eight (2015) sono film di un cineasta talentuoso, ma segnano una distanza incolmabile dall’immediatezza e dalla tensione cinetica di Pulp Fiction. Tutto diventa puro feticcio, dai titoli di testa alle musiche, dai dialoghi alle interpretazioni, sempre caricaturali, dai movimenti di macchina alla scelta di un supporto cinematografico in disuso da mezzo secolo. Feticcio di un cinema ripiegato su se stesso, incapace di dialogare con il proprio tempo e con il cinema che lo rappresenta, chiuso com’è su un universo autoctono di riferimenti in cui si predilige il western di Leone, Corbucci e Tessari a quello di John Ford. Non tanto western revisionista, quindi, ma incapacità di fare cinema al presente, e impossibilità di fare i conti con una maturità raggiunta troppo presto.

The Hateful Eight è un film decisamente più sobrio di quello che l’ha preceduto, western sgraziato e fracassone che rappresenta uno dei punti più bassi della produzione del regista, insieme a Grindhouse – A prova di morte (2009). Lo studio dei caratteri è dettagliato, il meccanismo narrativo procede come un ingranaggio a orologeria per due ore, nonostante certe lungaggini nel dialogo, anche se più contenute rispetto al passato recente. La regia studia lo spazio e lo misura con precisione, situa le pedine sullo scacchiere dell’intrigo, è al servizio del film e non viceversa. Tra le cose che a Tarantino sono sempre riuscite meglio c’è l’abilità di imporre un crescendo di tensione per mezzo di un secco alternarsi di piani, dove il battibecco hard-boiled assurge a prodromo esplosivo per la resa dei conti, prendendo il posto dell’estenuata attesa dei duelli leoniani. E qui tutto l’atto centrale (lungo, in realtà, metà film) ne è magistrale esibizione, così come lo era in una delle poche parti salvabili di Django Unchained: la contrattazione per la liberazione di Broomhilda, terminata con il rifiuto della stretta di mano tra il personaggio di Christoph Waltz e Leonardo DiCaprio, e con l’uccisione di quest’ultimo. A futura memoria resta la scena in cui Daisy Domergue canta “Jim Jones at Botany Bay” mentre sullo sfondo – in un ripetuto gioco di messa a fuoco – ha luogo l’avvelenamento che darà il via al massacro.

Ma è proprio qui che il film inciampa, prima nel rivelare l’atto dell’avvelenamento stesso, e poi nel riportare indietro la narrazione all’antefatto, con l’arrivo del quartetto di loschi figuri in combutta con la prigioniera. Quello che in Le iene si decideva di escludere qui si sceglie di mostrarlo; quello che in Pulp Fiction era vertiginoso e spericolato incastro temporale, qui necessità di una voce fuori campo che fornisca direttive di interpretazione. L’ultimo atto fallisce per un peccato di vanità: anziché condurre a naturale conclusione la vicenda, il regista, per spiazzare lo spettatore (deve farlo!), spiazza se stesso. Così, anche se The Hateful Eight è quanto di più vicino abbia realizzato Tarantino ai due film in questione, è anche quello che rivela con maggiore evidenza la sua lotta contro se stesso e lo spalancarsi dell’abisso che separa la maturità composta delle prime opere dal compiacimento esibito delle ultime. La lettera di Lincoln è, in questo senso, esemplificativa: una facile trovata, utile a riassumere la portata d’ambiguità di una formale pacificazione tra razze che non ha mai avuto veramente luogo, e della quale il regista partecipa, con la sua rappresentazione superficiale di un universo cinico e iper-violento. E, si badi bene, superficiale non in sé, ma nel voler ambire a essere più di quello che è. Il contenuto della valigetta di Pulp Fiction, finalmente svelato.

Tarantino sta riscrivendo la Storia? Ha fatto ben di più: in Pulp Fiction ha riscritto la Bibbia! O eravate convinti che la celebre tirata di Samuel L. Jackson fosse davvero presa da Ezechiele 25:17?