In che modo l’arte e il cinema sono entrati nella tua vita?

Sono nato in una piccola città di 30.000 abitanti all’est del Quebec, dove ci sono pochi cinema. Mi sono fatto una cultura cinematografica guardando video di snowboard e skateboard con i miei amici in cantina. La prima volta che ho visto Shining in TV, mi sono reso conto che dietro alle immagini c’era qualcuno che si occupava del montaggio, e questo mi ha fatto venire voglia di fare film. Abbastanza velocemente, ho cominciato a girare film di skateboard e di snowboard con i miei amici. Uno di loro aveva una videocamera, io assunsi il ruolo di cameraman durante i nostri road trip per esplorare i dintorni. Ne facevamo di tutti i colori e portavo con me la videocamera quando bevevamo birre o mentre passavamo il tempo al parcheggio di un McDonald’s. Per montare le riprese utilizzavo un magnetoscopio VHS, copiando i nastri e premendo sui pulsanti «stop» e «record». Facevo insomma del bricolage, mi arrangiavo con i mezzi di cui disponevo. Ho perso tutti quei video, perché riutilizzavamo le cassette registrandoci sopra, non avevamo l’abitudine di conservare quasi niente. Ecco come ho mosso i miei primi passi, poi sono andato a Montreal per studiare cinema, per interesse, ma anche per fuggire dal luogo in cui abitavo. Avevo voglia di aprire i miei orizzonti il più possibile. A scuola, ho iniziato a fare dei film di finzione che detestavo, prima di scoprire la fotografia, la pittura e la musica grazie agli studenti d’arte che frequentavo. Fu allora che cercai di mecolare queste discipline con i miei corsi di cinema. Non amavo il sistema che ci proponevano per fare film, e abbastanza velocemente ho trovato un modo di lavorare mio, che ha dato vita, ad esempio, a Parapluie Bomb City. Prendevo una videocamera A8 analogica, e andavo a filmare in strada, tutta l’estate, un po’ come quando seguivo i miei amici mentre andavamo in skateboard. Poi ho tralasciato la scuola, ho girato Beluga Crash Blues, Du moteur à l’explosion, cominciando a realizzare film collage con materiale girato da me. Quest’idea può sembrare strana, addirittura paradossale, ma con questo modo di procedere, riunivo correnti che amavo, fra quelle di cui mi avevano parlato a scuola: il cinema diretto, il neorealismo italiano, ma anche il cinema collage di Arthur Lipsett e di Bruce Conner. Questi approcci tessevano peraltro legami con la musica che ascoltavo, cosa che mi ha nuovamente ispirato a fare musica, a mettere insieme gruppi noise o di musica sperimentale, e a comporre con amici la colonna sonora di qualcuno dei miei film, come Du moteur à explosion o ISO

Poi è arrivato internet…

All’inizio internet era una grande distrazione quando lavoravo sui miei montaggi. Con gli anni, questa distrazione è diventata il soggetto dei miei film. Navigavo tantissimo e un giorno mi sono accorto di poter utilizzare tutte quelle immagini che erano lì, a mia disposizione. Tutto ciò che vedevo, potevo utilizzarlo per i film, così come utilizzavo ciò che filmavo camminando per strada. Oggi non riesco a tornare indietro, a riprendere la videocamera…

Nei tuoi film, si percepisce la traccia di un approccio antropologico. Hai avuto anche modo di studiare questa disciplina?

Non proprio. Durante la scuola superiore ho seguito corsi di introduzione alla psicologia, di sociologia e di filosofia… Erano fantastici e mi hanno fatto venire voglia di leggere, ma non ho seguito una formazione accademica. Tuttavia, riguardo il mio lavoro, non so davvero cosa significhi «antropologia»: amo molto il cinema science-fiction e mi attrae la nozione di distanza. Ho sempre mantenuto una grande distanza: anche quando faccio film affini al cinema diretto, come Beluga Crash Blues o Du moteur à explosion, utilizzo teleobiettivi. Forse è un po’ naïf, ma non mi piace disturbare, dover domandare alle persone di mantenere un aria naturale, non guardare in camera… Preferisco filmarli a distanza. È vero che ciò può far pensare a un tipo di osservazione, e forse per questo si può parlare di antropologia. Oggi la questione della distanza è interamente regolata: non sono più teleobiettivi, ma reti di fibre ottiche a mettere a distanza. In fondo, è lo stesso comportamento, un comportamento da voyeur.

Percepisci una continuità tra l’approccio basato sull’osservazione e quello dei tuoi film di montaggio sui video raccolti da internet?

Senza dubbio. Se guardi ad esempio High Speed, il protagonista del film l’ho incontrato in un parco, e lo utilizzavo un po’ come un motore di ricerca. Non gli facevo nessuna domanda, ma gli davo delle parole a caso come «robot», e lui incominciava a parlare a lungo. Poi gli davo un’altra parola, e ricominciava. Nel suo discorso, c’erano elementi aleatori, ma nell’insieme era molto costruito. Trovo questo modo di procedere molto vicino a quello che consiste nell’andare su internet e lavorare con delle parole chiave, fare delle ricerche… D’altra parte, Eric Hynes della rivista Film Comment ha recentemente utilizzato il termine «gonzo» parlando del mio lavoro[1]. Ci ho messo un po’ a capire quello che voleva dire, ma in un certo senso ha ragione: mi «alieno» enormemente. Nonostante la distanza di cui parlavo prima, sono molto vicino ai miei soggetti, anche se non li incontro mai. Con High Speed, sono davvero entrato nella testa del personaggio, nella sua mente. Ho l’impressione di aver fatto un viaggio con lui. Con questo tipo di ritratto parlo tanto di me quanto dell’altro. C’è qualcosa di molto gonzo in questo tipo di approccio. Lasciando da parte l’aspetto droga e alcool, si può parlare di gonzo per definire un tipo di partecipazione, una sorta di empatia, del genere «sto con voi ragazzi».

Si può parlare di una sorta di immersione antropologica di ordine virtuale nell’approccio che utilizzi con i tuoi film dell’«era internet»?

Con Rip in Pieces America, mi trovavo nel mio chalet armato fino ai denti con solo le provviste. Avevo una 4×4, ho ritirato tutti i miei soldi dal mio conto in banca ed ero pronto [ride]. Avevo una rete di contatti nella regione: uno aveva una fattoria, l’altro cacciava… Sapevo che questo avrebbe contribuito alla comprensione del soggetto. Oggi, posso guardare il film e dirmi che sono riuscito a far uscire ciò che c’è di buono in tutta questa paranoia. Circa il 70% delle cose che dicono sono vere. Ad esempio, lo scandalo della NSA è stato svelato parecchi anni più tardi, ma questi ragazzi che avevo trovato su YouTube lo sapevano già. Essere nello stesso trip, immergermi nel loro scenario di paura, mi ha permesso di capire meglio la posta in gioco, di rendermi conto che la loro visione del mondo non era del tutto infondata.

A volte, i tuoi film e i rapporti con le persone di cui utilizzi i video sono causa di incomprensione…

Of the North è stato molto criticato qui in Canada. Mi hanno rimproverato di aver fatto una compilation di momenti degradanti. Eppure, provo simpatia per queste persone… avevo l’impressione di essere dallo loro parte, di ritrovare le stesse assurdità che facevo con i miei amici, in skateboard, davanti al McDonald’s, prima di farci prendere dal gestore. È esattamente la stessa delinquenza, e non ci vedevo niente di male. Hanno creduto che giudicassi moralmente i soggetti di questi video, ma non è affatto vero. D’altronde ho messo da parte i video «trash», cercando piuttosto di utilizzare gli elementi dai quali emergesse un po’ d’umanità, momenti in cui c’era solidarietà tra i ragazzi che bevevano, una forma di comunità oltre le difficoltà in cui vivono.

L’anno scorso, durante la presentazione del tuo ultimo film à Visions du Réel, hai parlato del tuo cinema e in particolare di Of the North come di un gesto surrealista…

Surrealista, perché nelle immagini di Of the North, ci sono una cinquantina di comunità: Russi, Canadesi, Americani, Novergesi, gente della Groenlandia… Lo spazio è totalmente ricostruito, il luogo del film non esiste, è pura creazione, una finzione. Se la gente vi si ritrova, vi si identifica, si entra in un altro campo che è forse vicino al surrealismo. Ma ho mostrato il film ad alcuni Kanaks in Nuova Caledonia e si sentivano molto vicini perché vi riconoscevano i loro stessi problemi… Se fossi andato a girare in una comunità nel Nord, non avrei potuto fare questo film. Le piattaforme petrolifere si trovano in Russia. È un film d’anticipazione. In un certo modo, è quasi science-fiction. Se c’è un crimine da confessare, è proprio questo: aver inventato tutto. Ma i problemi sono reali, la gente è vera. Non sento tuttavia la necessità di chiamare per nome le persone, le compagnie, o i politici, di denunciare. In fondo, faccio delle poesie. E dico: il reale certo, il surreale sicuramente.

Nella ricchezza del materiale che prendi da internet, non c’è mai l’intenzione di ricostruire qualcosa. Il montaggio classico è 1+1=2. Ma il tuo sembra funzionare diversamente. Qual è la logica che precede la tua concezione del montaggio?

Per me, 1+1=11 perché non mi interesso al significato dei numeri, ma alla loro forma. Non addiziono gli elementi, li faccio coesistere. Il mio lavoro di montaggio funziona per associazione d’immagini. Il legame tra un’immagine ed un’altra si basa spesso su cose molto semplici: può essere un colore, una forma o una nota. In Rip in Pieces America, utilizzo molto il montaggio per associazione, il motivo del fucile ad esempio, altrimenti ricerco una sorta di logica nel susseguirsi dei discorsi. Decido di creare un tutto con dei pezzi di cose. È per questo che il film si chiama RIP in Pieces. Per me sono pezzi da assemblare. Quando comincio un montaggio, è un po’ come fare un puzzle senza conoscere l’immagine finale. Il tassello verde deve andare con quest’altro tassello verde, ma non ho alcuna idea di cosa sto creando. E quando constato che il quadro è finito, che regge bene, so di avere realizzato un film. Si chiamerà Rip in Pieces America, Of the North o High Speed.

[Dicembre 2015; per gentile concessione degli autori, l’intervista è tratta dal catalogo di Visions du Réel 2016, traduzione di Giulia Longo].


[1] cf : www.filmcomment.com/blog/make-it-real-the-artist-is-present-in-the-edit/