Al suo quarto lungometraggio e a quattro anni di distanza da Wuthering Heights, l’inglese Andrea Arnold si conferma cineasta tra le più interessanti in circolazione. Girato con un nutrito cast di non professionisti affiancati a Shia LaBeouf e Riley Keough, American Honey è un road movie che (tras)porta un colorato gruppo di ragazzi attraverso il midwest, in viaggio a bordo di un van dove fumo e musica non mancano mai. Senza arte né parte, e in molti casi senza famiglia alle spalle, la combriccola alloggia dove capita e passa le giornate bussando di porta in porta tra l’Oklahoma e il Kansas per vendere abbonamenti a ogni sorta di riviste. A loro si unisce la diciottenne Star, selvatica bellezza mulatta, che partecipa della congrega senza condividerne più di tanto spirito e usanze, e instaura una relazione passionale con Jake (LaBoeuf) destinata a portare più danni che altro. Due ore e quaranta per un viaggio al termine del quale non ci sono rivelazioni o scoperte, nessun punto d’arrivo, geografico o esistenziale, tale da offrire il senso compiuto di una destinazione.

American Honey radicalizza lo sguardo sull’adolescenza irrequieta elaborato dalla regista in Fish Tank e porta ulteriormente avanti un lavoro su ripresa, fotografia e montaggio come terminazioni nervose e connesse di un cinema deciso a scrivere la propria, personale grammatica riformulandone liberamente l’ABC: i primi piani o i totali della Arnold sono spesso imprevedibili, mai scontai, e restano sullo schermo il tempo necessario a non generare maniera. Parte del merito va attribuito al direttore della fotografia di fiducia Robbie Ryan, ma è soprattutto la mobilità dello sguardo a sorprendere: con piglio da cinema diretto, documentario, il posizionarsi della macchina da presa a lato o alle spalle dei soggetti ripresi (magnifiche le riprese “collettive” dal fondo del van durante gli spostamenti di città in città) è un accompagnamento più che un pedinamento, e quando si fa frontale, diventa un indugiare curioso su fattezze mobili e incerte, come quelle involontariamente seducenti e, anzi, piuttosto sfuggenti dell’esordiente ventenne Sasha Lane, scoperta dalla regista su una spiaggia californiana durante i sopralluoghi.

In maniera sempre più radicale, quello della Arnold si rivela essere un cinema che non cerca il controcampo e quando lo vuole se lo va a prendere con bruschi movimenti a schiaffo, preferendo sostare sui volti di chi guarda o chi ascolta anziché mostrare ciò che si vede o colui che parla, fornendo allo spettatore una particolare forma di “soggettiva negata” che, non basandosi su una banale sovrapposizione di vedute, vive piuttosto di libere interpretazioni emotive. In quest’ottica, è fondamentale la scelta di restringere il quadro all’1.33:1, che consente alla regista di stare addosso ai corpi dei personaggi e allo stesso tempo di rivelarne la solitudine e l’isolamento. In fondo, la gioventù di American Honey, guardata con occhio tenero e comprensivo, non viene giudicata ma neppure salvata: la danza intorno al falò nel finale, sulle note di God’s Whisper di Raury (“God have mercy on the ignorant youth”), e l’allontanarsi dal gruppo della protagonista che si immerge nell’acqua scura di un lago, dichiarano in maniera esplicita come dietro la festosa e innocua spregiudicatezza dei protagonisti non ci sia altro che il desiderio di evasione e l’emancipazione dalle responsabilità di una generazione che ancora non ha trovato risposte o alternative alla morte degli ideali dei propri padri. [Alessandro Stellino]

AI CONFINI DELLA PERCEZIONE

C’è del meraviglioso nel nuovo film di Alessandro Comodin. Non soltanto perché è proprio lo stupore – e con esso una sospensione del giudizio nell’immediato – la prima reazione che suscita la visione di I tempi felici verranno presto, uno dei rari film capaci di intessere una relazione con il soprannaturale a partire dagli elementi basici delle fiabe. Ma anche una narrazione che fin dall’inizio si palesa nella sua valenza autoriflessiva, mettendoci di fronte a un narratore che, come la Sherazade di Arabian Nights, porta un nuovo linguaggio, e con esso l’impossibilità di una riduzione semplicistica degli eventi misteriosi della vita.

Non deve sorprendere, quindi, che all’inizio di I tempi felici verranno presto si avverta una sensazione di deja-vu: due ragazzi, molto giovani, saltano giù da un muro, sono in fuga e, finalmente liberi dalle barriere che li opprimevano, attraversano il campo dell’inquadratura sfrecciando in un bosco che li nasconde e li accoglie. Di loro non sappiamo nulla. Sono quasi bambini dai volti imberbi, i loro abiti non lasciano dubbi sullo stato di prigionieri, evasi, i loro gesti raccontano la volontà di sopravvivere nonostante tutto. I giorni e le notti si alternano, la loro utopica fuga è presto ridotta a una parentesi, un anelito di libertà presto represso. L’essenzialità dell’incipit, che rimanda a Diamanti nella notte di Nemec, riconduce a una dimensione astratta in cui si apre un discorso sulla possibilità di formulare un racconto oggi. Non a caso è un vecchia storia di paese (raccontata da vari testimoni), che permette di mettere insieme le parti di questo film dicotomico, nel quale si succedono diversi personaggi. Dopo la fuga di Tommaso e Arturo, arriva Ariane, ragazza vissuta a lungo lontano, malata in maniera inguaribile, che torna dal padre e si immerge nella natura per affrontare la morte. Ma nel bosco c’è un lupo e i cacciatori sono pronti a riprendere il controllo della zona.

Come già succedeva ne L’estate di Giacomo, Comodin spinge i suoi personaggi in un percorso fisico, in questo caso un buco (che è anche un cunicolo e si trasforma in una caverna), da affrontare per poter accedere a un’altra dimensione: il fiume di Giacomo qui è una pozza melmosa dove finalmente qualcosa può accadere. Fuori da un controllo prestabilito, due corpi si avvicinano (in un’inquadratura che li tiene insieme nelle acque salmastre, che sembrano portare il contatto di uno sull’altra): si crea una tensione, avviene un piccolo scambio, qualcosa che è destinato a farli ritornare alla vita in maniera differente. La magia di varcare una soglia che solo l’occhio del cinema (nel movimento di camera che scruta un sottobosco fangoso che nasconde e svela il passaggio) sa creare, spingendoci a rompere schemi narrativi prestabiliti e a usare, in maniera rinnovata, un linguaggio troppo a lungo tenuto a bada da “sguardi educati” e compromessi.

La libertà cercata da Tommaso e Arturo, ribelli e lupi per una società che rifiuta il valore della diversità, è quella che esibisce Comodin nella sua ricerca estetica: un cinema in cui l’estrema sottrazione narrativa si coniuga con una consapevolezza estetica della “performance” della macchina da presa, i cui movimenti non sono mai pura estetizzazione ma vero e proprio racconto di quel “divenire” che è il fulcro del film. Non c’è nessuna risoluzione della vicenda (come non ci sono spiegazioni a darne il via), solo la parola nelle testimonianze di chi ha tramandato la storia di Dino Selva inquadra la narrazione, e il cinema ne sorprende il lato più materico e pulsante: un attraversamento di dimensioni o di piani che ci spinge – come fa il lupo con la bella fanciulla – in fondo al bosco della percezione, laddove è sempre più intricato e sempre più buio. Nessuno, del resto, sa se la fanciulla non è mai tornata perché ha scelto di vivere nell’oscurità (e di credere nel cinema più estremo) o è stata divorata dal lupo. [Daniela Persico]