Riscoprire la filmografia di Jacques Rozier presuppone, in una certa misura, la riconsiderazione delle esperienze cinematografiche francesi non direttamente assimilabili alla Nouvelle Vague, un viaggio per le strade meno battute, a tratti impervie, alla scoperta di altre realtà coeve. Non a caso – in un’intervista racchiusa nel cofanetto distribuito da Potemkine e contenente quattro lungometraggi e due cortometraggi del grande regista –, Jean Douchet avverte l’esigenza di rimarcare la natura hors commerce del cinema di Rozier, il quale viene accostato a Jean Eustache e Maurice Pialat.

Lungi dallo sminuire l’importanza degli autori più blasonati che operavano in quegli anni, pare doveroso riconoscere la levatura di questo cineasta così autorevole – e, giocando con la definizione di Douchet, hors du temps – eppure non abbastanza conosciuto e a malapena distribuito oltre i confini francesi. Sono due, infatti, le premesse paradossali sulle quali poggia la sua limitata fortuna cinematografica: da una parte, nel 1955 il cortometraggio Rentrée des classes, assieme a La pointe courte di Agnès Varda, sancisce la nascita di un nuovo cinema francese; su un altro versante, il suo primo lungometraggio, Adieu Philippine (uscito in Italia con il titolo Desideri nel sole), realizzato nel 1961, sconvolge il panorama cinematografico nazionale, tanto da spingere Éric Rohmer, allora caporedattore dei Cahiers, a scegliere un fotogramma del film per la copertina di un numero speciale interamente dedicato alla Nouvelle Vague. Ci si stupisce allora della tenace smemoratezza delle platee che continuano a misconoscere i suoi meriti e, altresì, delle difficoltà incontrate da Rozier, il quale è riuscito a realizzare soltanto cinque lungometraggi, affiancando alla carriera di cineasta e di regista televisivo numerosi impieghi, tra cui quello di contabile.

Libertà è forse il termine che, assieme ad eccezione, meglio descrive la prassi operativa di Rozier; una libertà ostinata che trasuda da ogni inquadratura, così vitale da sembrare autosufficiente e, al contempo, così fragile da produrre uno squarcio, lasciando presagire l’incertezza del futuro. Fin dal sopraccitato Rentrée des classes, infatti, affiora un incontenibile ésprit Vigo, l’urgenza di Rozier – e, in un secondo momento, dello spettatore – che si riverbera sulle acque increspate del fiume, ove s’immerge il bambino per recuperare la propria cartella. Deviazione, infrazione di una norma e insolenza temeraria diventano sintomi di uno slancio vitale colto nella sua accezione positiva finanche nel momento della piccola esplosione di violenza. Quest’opera minuta contiene in nuce i tratti distintivi del suo cinema ebbro di vita – allo stesso modo in cui lo è, in Du côte d’Orouët (1969), Gilbert (Bernard Menez) intento nella preparazione di una cena con i fiocchi che tuttavia resterà intonsa –, sinceramente attento e spesso solidale ai desideri frustrati dei suoi personaggi.

Tra la civiltà, sorta di patina in ossequio alla tradizione e ai valori borghesi, e la deviazione liberatrice tuttavia non c’è che un passo; un piccolo balzo espresso con un montaggio alternato che, come in Rentrée des classes, accosta lo spazio compresso dell’aula, in cui il frastuono viene domato dall’insegnante, e il rigoglio voluttuoso, gioiosamente chiassoso, della natura. Uno stacco secco e la visione cadenzata dei due ambienti, tanto diversi quanto attigui, rimarcano la prossimità possibilmente colmabile fra i due mondi.

Come accade in Les naufragés de l’île de la tortue (1976), in cui il viaggio alla scoperta di una natura indomita costituisce effettivamente il nocciolo della narrazione, le catene della quotidianità sociale sono aggirate ancora prima che la combriccola di viaggiatori abbia l’occasione di mettere piede sull’isola deserta, ancora prima che l’assenza di contatti umani induca i naufraghi a pregare per l’esistenza di un Venerdì. A una poetica smaliziata e alla critica aperta delle abitudini borghesi – che, come comprende Rozier, non sono più attribuibili a una classe sociale ben precisa – soggiace tuttavia un atteggiamento lieve, uno strenuo attaccamento alla giovialità della commedia, per quanto acuminata essa sia. Sebbene le quattro “S” del turismo – sun, sea, sand, sex – offrano già ciò che non dovrebbe avere un prezzo, l’agenzia di viaggi in questione sarà la prima a proporre una vacanza il cui programma è non averne uno: «Robinson, démerde-toi» recita, infatti, lo slogan. In occasione del primo sopralluogo, i due uomini approdano sull’isola incontaminata in veste di coloni che reclamano la proprietà della madrepatria, mentre la guida autoctona, in un crescendo parossistico, diventa lo schiavo, sottomesso alla bandiera francese, qui svuotata, ridotta a due fettucce bianche svolazzanti.

È semplice allora rintracciare lo spirito dissenziente ma mai “militante” di Rozier (per il quale è stato accusato, talvolta, da certa critica). Sfidando la censura e presentando un film non pienamente assimilabile alla produzione della Nouvelle Vague, Rozier si pronuncia sulla “questione Algeria”[1] pur rimanendo sul piano metaforico. In tal senso la sequenza finale di Adieu Philippine offre un esempio perfetto: le due ragazze, di cui il protagonista si è invaghito, lo accompagnano al porto mentre in sottofondo una melodia marziale della tradizione corsa, U liò de Roccapina, preconizza il ritorno al continente e l’imminente partenza per l’Algeria di tanti giovani, nonché la fine delle vacanze – della spensieratezza – salutate sventolando dei foulard da un molo rialzato.

I due tempi che scandiscono la progressione del film – uno forte, ricollegabile alla prima parte girata in Francia, e uno debole, legato al periodo vacanziero in Corsica – si fondono nel finale attraverso un montaggio sapiente e l’impiego di due differenti temi musicali. Questa biforcazione temporale sembra però annullarsi nella sequenza pressoché bergmaniana – dalle parti di Monica e il desiderio – del cha-cha-cha, culminante nello splendido primo piano di Yveline Céry, lo sguardo in macchina, che balla da sola.

Il progetto iniziale, dal titolo provvisorio Embrassons-nous ce soir, prevedeva la realizzazione di una commedia musicale incentrata esclusivamente sul triangolo amoroso. Infatti, Godard aveva presentato Rozier a Georges de Beauregard, produttore di Fino all’ultimo respiro, interessato ai film sulla giovinezza. E pur optando per l’aggiunta di un tematica ben più seria, non si può certo accusare Rozier di infedeltà all’idea originaria.

Le immagini sono montate in funzione della musica e del ritmo interno – si pensi alla carrellata che segue la camminata svelta delle ragazze. In quest’occasione si ricorre all’accelerazione e a frequenti jump cut che accrescono la frenesia parigina e, non ultima, della società consumistica tout court: la materialità del mezzo cinematografico è messa in risalto e minaccia di andare a braccetto col mondo pubblicitario, capace persino di convincere all’acquisto di un «frigorifero in Artide». Per di più, il protagonista riesce a far colpo sulle ragazze permettendogli di visitare gli studi televisivi dove lavora come tecnico; le porta poi in un bar dove non sanno neppure cosa ordinare (e, per fortuna, una delle due pensa alla Coca-Cola, condizionando anche l’altra!); si passeggia alla galleria La Fayette. Gli adulti – la società – che non ascoltano i giovani, che li accusano altresì di avere una vita troppo facile, sono responsabili della loro infelicità nonché del dramma bellico. Eppure, siamo lontani dall’invettiva feroce, magari sotto forma di film-saggio godardiano, benché da premesse simili prendano le mosse Due o tre cose che so di lei o, ancora, Il maschio e la femmina.

Non a caso, da tutte le testimonianze che figurano tra i contenuti speciali del cofanetto, emerge costantemente l’interesse di Rozier per la vita in quanto ganglio inestricabile di frivolezza e gravità. Da qui il commento azzeccato di Douchet che lo definisce «cinéaste du plaisir», perché spesso i momenti più toccanti conquistano lo spettatore per il loro impeto poetico soltanto dopo la scarica – dalla funzione quasi apotropaica – della risata, di rado così ricca di connotazioni possibili. Lo spettatore si scopre in sintonia con i giovani che sovente, a differenza dei personaggi più intellettuali della Nouvelle Vague, non riescono a cacciarsi fuori dagli impicci ricorrendo a un wit innato e, pertanto, trovano rifugio nella risata.

Già in Blue Jeans (1958) emergevano prepotenti i catalizzatori delle azioni di ogni personaggio rozieriano: l’ennui e la sensualità frustrata. L’insoddisfazione intrisa di noia è a stento repressa dal controllore in Maine océan (1985), almeno finché, scopertosi «roi de la samba», aleggia la proposta di un agente di spettacolo di portarlo con sé negli Stati Uniti dove potrebbe diventare «il Maurice Chevalier del futuro».

Così come, in Du côte d’Orouët – per chi scrive il sommo capolavoro di Rozier –, Gilbert tampina la collega di cui è innamorato perché incapace di sopportare un intero mese di lontananza durante le ferie estive. Per la maggior parte del tempo il film si dipana all’insegna di un’atmosfera soave – in cui «alla polvere della realtà viene a mischiarsi sabbia magica, in cui qualche volgare incidente della vita diventa una molla fantastica»[2] –, distante dal trambusto parigino, a tratti però vagheggiato, che contraddistingue anche alcuni tra i migliori film di Rohmer (da La collezionista a Pauline alla spiaggia, da Il raggio verde al Racconto d’estate). Nella coerenza pertinace di Rozier, sono tuttavia l’acqua, l’oceano, la spiaggia, il biancore accecante del sole, i rumori della natura e la fragilità grandiosa della gioventù ad assumere un ruolo preminente: l’obbligo morale della scelta (sentimentale, etica) e l’ebbrezza della possibilità-che-sì, centrali nel cinema di Rohmer, paiono decentrati in Rozier, poiché quasi inaccessibili appaiono ai suoi giovani personaggi.

Ed è proprio in questo film proustiano – fin dal titolo e dal nome del personaggio –, girato in 16 mm nel 1969 ma distribuito soltanto nel 1973, che Rozier porta a compimento il suo studio sui tempi della narrazione cinematografica iniziato con Adieu Philippine. Interrotto dalla produzione in piena realizzazione, sarà Rozier a sobbarcarsi i costi necessari alla conclusione del film, come ricorda Jean-François Stévenin. Come l’ondata di cahiers proustiani che anticipano la stesura vera e propria del romanzo, l’imponente metraggio di pellicola utilizzata è necessario a cogliere l’impressione soggettiva dello scorrere del tempo: «Plus que prendre son temps, il lui donne toute sa valeur», afferma con acume Pierre Richard. La scansione dei giorni – demarcati come in un diario rohmeriano – ha qui lo scopo di screditare la durata “solare” del tempo, a favore di un “mese sentimentale”, fino al traumatico rientro a Parigi che segnala il sopravvento di una nuova stagione morale in cui non sembra concepibile attestarsi al primo stadio del cammino della vita kierkegaardiano, più degli altri tiranneggiato dal possibile, la più pesante delle categorie.

«Se dovessi desiderare qualcosa, non desidererei ricchezza e potere ma quell’ardente senso dell’ottenibile, quell’occhio che perennemente giovane ed entusiasta, vede il possibile. Il piacere delude, la possibilità mai»[3], ci rammenta Kierkegaard. Ma non è possibile rimandare a vita il momento della scelta: «Je crois que je vais partir», decreta Gilbert costernato, similmente all’eroe di Maine océan – interpretato ancora una volta da Bernard Menez – che si trascina con la propria valigia, traboccante d’illusioni perdute, in una spiaggia deserta, fino a raggiungere una strada asfaltata, dove un automobilista si offre di ricondurlo in città, con buone probabilità verso un futuro «non brillante, ma almeno stabile». Fino a prova contraria. O almeno finché un nuovo baccanale free-formsumma dell’arte rozieriana – eromperà sconvolgendo nuovamente la sua vita.

Jacques Rozier – Coffret, ed. Potemkine, versione originale in francese, sottotitoli in inglese.


[1] Pochi, in quegli anni, i film ad aver affrontato la questione: su tutti Le petit soldat (1960) di Godard, Gli amanti dell’isola (1962) di Cavalier, Muriel, il tempo di un ritorno (1963) di Resnais e La belle vie (1963) di Enrico.

[2] M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Mondadori, Milano, 1983, vol. 2, p. 469.

[3] M. Danesi, Labirinti, quadrati magici e paradossi logici, Dedalo, Bari, 2006, p. 89.