Blutch e Mattotti assomigliano ai personaggi che creano. Come se si fossero disegnati da soli o avessero estruso lo spazio che li circonda con la forza della loro immagine. Blutch  (Christian Hincker) ha le orecchie a sventola e il cranio a punta tipico dei popoli slavi, anche se è erede della grande tradizione di fumetto francofono. Il suo nome d’arte infatti si ispira a un personaggio de Les Tuniques Bleues, una bande dessinée belga, molto conosciuta in Francia, sulla guerra di Secessione. Blutch: petit, chauve et ralant. Piccolo, calvo e brontolone parla poco e parla piano, fa lunghe pause per scegliere parole che non sembrano mai soddisfarlo e di tanto in tanto dice cose estremamente intime guardando la base del microfono, o spostando gli occhi sulla linea dell’orizzonte nell’auditorium di Monte Verità, dove si svolgono gli atelier de L’immagine e la parola, evento legato al Festival del film Locarno. Poi li rialza come se non avesse appena rivelato che da bambino ha iniziato a disegnare perché così almeno poteva restarsene chiuso in casa, dove si sentiva a suo agio, e non in un campetto di calcio spelacchiato.

Blutch disegna per esplorare le sue nevrosi. Una di queste è il fantasma che lo ossessiona da sempre, la donna, e che sonda oniricamente fin dai tempi di Mademoiselle Sunnymoon (su Fluide Glacial, AUDIE, 1992-93). Da qui si apre l’esplorazione del sogno e delle sue sensazioni, come ne La Volupté (Futuropolis, 2006) e La Beauté (Futuropolis, 2008). Un’altra delle sue idées fixes è la musica e il modo di tradurla in segno, eppure Total Jazz (2004) resta per lui un tentativo estremo e frustrante. E forse è per questo che come primo film ha proposto The Wind (1928), film muto con accompagnamento musicale di Victor Sjöström. Terza ossessione è il tempo.

Blutch sa – e sostiene – di non sapere, per questo continua a disegnare, per capire se stesso e ciò che lo circonda. L’unica cosa che ha fatto da sempre è stato andare al cinema.  Il cinema l’ha formato e da incerto qual era – ed è, sostiene – i grandi attori sono diventati per lui un modello di vita. Gli attori diventano di volta in volta i personaggi che interpretano e allo stesso tempo incarnano e subiscono lo spirito del tempo proiettato su di loro dagli spettatori. Gli attori cambiano, gli attori muoiono, portandosi con sé un pezzo della nostra vita, dell’estetica che ci siamo immaginati dovesse avere. In Per farla finita con il cinema (Coconino Press, 2012), c’è un capitolo dedicato alla morte di Paul Newman –  che in effetti potrebbe esser stato sostituito a giudicare da alcune sue foto del ’63 da Matthew McConaughey. Sì, perché l’attore è unico, ma allo stesso tempo è un tipo che si reincarna, si ripete, come le figure della commedia dell’arte. Seguono altri miti, Ava Gardner, Brigitte Bardot, Monica Vitti ne Il dramma della gelosia (1970), Burt Lancaster e Yves Montand, che propone in La guerre est finie (1966), anche in onore alla sua profonda amicizia con Resnais. Eppure, quando gli è stato proposto di confrontarsi con il cinema, in Peur(s) du noir (2008) – film d’animazione a cui tra gli altri hanno collaborato anche Lorenzo Mattotti e Richard McGuire – è rimasto deluso, ha capito che la poesia del suo lavoro, il suo mistero, dimora ancora e nonostante tutto nell’immagine fissa.

Tra i registi che Blutch ama di più ritroviamo Buñuel, perché nei suoi film regna l’incertezza che li accomuna al sogno. I dialoghi non sono logici, ogni risposta è inaspettata, non si sa mai quello che succederà subito dopo, solo che probabilmente non sarà niente di quello che potrebbe essere. Nei suoi film siamo immersi in un ambiente familiare eppure straniero, in cui nulla è davvero al suo posto. Come la sveglia che continua a scivolare di un’ora ne Le fantôme de la liberté (1974). È così che nel cinema abbiamo la sensazione che il tempo sia alla nostra mercé. Noi possediamo il tempo perché siamo riusciti a dargli una misura, in particolare sulla pellicola e sulla carta. Noi abitiamo quel tempo: mentre guardiamo, mentre leggiamo, mentre sogniamo. E questo paradosso ci regala la libertà che ci permette di creare. Ma quello che Blutch invidia al cinema è proprio questo contatto  preferenziale col tempo e coi suoni, che il disegno, per forza di cose, non può avere. Ma in fondo, l’amore e l’invidia per le arti che lo escludono nutrono la sua stessa arte. E come ha detto bene Antoine Guillot analizzando la lunga collaborazione tra il nostro e Alain Resnais: “Un’epifania del legame profondo che intrattengono le loro due opere, un’arte surrealista del montaggio visto come un innesto, in cui, da Je t’aime, je t’aime (1968) di Resnais a Lune lenvers (Dargaud, 2014) di Blutch, il tempo non è più che una dimensione dello spazio.”

Mattotti, architetto di formazione, è invece un uomo denso, scolpito in un ciocco di legno. A ogni suo minimo gesto sembra che l’aria che sposta abbia una consistenza palpabile. Si muove in uno spazio malleabile, ed è come se i suoi disegni dovessero sfruttare la materia per diventare ineffabili. Mattotti l’ho scoperto per caso grazie a una serie di figurine aggrovigliate che si salutavano alla stazione e a una coppia che si rotolava sul letto (La stanza; Logos, 2010). Per lui il mondo in bianco e nero è cresciuto in parallelo al mondo a colori. Il secondo è quello che dedica agli altri, il mondo del confronto e del dono, ma il primo è il mondo interiore, quello dove non si deve niente a nessuno, un mondo libero che produce una linea fragile, disarmata e disarmante. Eppure, è stato proprio questo mondo, che non aveva il coraggio di mostrare a nessuno, a crescere sempre di più, ma sulle riviste per cui disegnava non c’era spazio per prolungare quelle emozioni, così è nato L’uomo alla finestra (Feltrinelli, 1992), col suo segno improvvisato, simile alla scrittura. La linea, per Mattotti, è linguaggio, è linea melodica. Seguirono Stigmate (Einaudi Stile Libero, 1999) e Chimera (Coconino Press, 2011), con cui questo segno criticato divenne sempre più consapevole.

Mattotti non è risentito nei confronti delle altre altri, le sfrutta per potenziare il mondo della linea sgraziata, la linea dell’altro mondo. La musica e il cinema, soprattutto. I suoi corpi abitano lo stesso spazio antropizzato eppur profondamente primordiale dei film di Antonioni, di Wenders o di Tanner, di cui ha proposto Les années lumière (1981). Ma per Mattotti il cinema è anche il paesaggio fuori dal finestrino di un treno in corsa, come nella famosa scena di Professione: reporter (1975): “What are you running away from?”. Per lui, architetto di formazione, la struttura del fumetto è spaziale, non prova neanche a rimettersi al tempo, è scandita la doppia pagina, ancor più della striscia, che viene da un’idea di narrazione fin troppo cinematografica. Il cinema è un’ispirazione, è un elemento con cui conversare, senza cercare di sfidare o di imitare. L’intensità delle immagini dà il ritmo al lettore, lo fa rallentare, aspettare, dilata il suo tempo senza occupare più spazio. L’energia della storia non deve contrarsi, non deve trasmettersi come forza, ma come potenza. Nei libri di Mattotti non c’è bisogno di spiegazioni, la linea spiega se stessa, trasformandosi nei bisogni emozionali della storia, in perenne movimento. Ad Hergé una volta un bambino disse: “Non mi piacciono i cartoni di Tintin perché non hanno la stessa voce dei fumetti”. Ecco mostrata semplicemente tutta la magia che sta dentro alle nostre teste quando contempliamo la fissità.

Come per Blutch, anche secondo Mattotti nel cinema è tutto più dato: dove riposa allora il mistero nell’immagine continua? Bisogna svelarne uno per costruirne un altro, di volta in volta, all’infinito. Sulla carta invece si può andare più lentamente, il montaggio delle immagini prevede necessariamente uno spazio bianco tra l’una e l’altra, un momento di silenzio. E a differenza del cinema sulla pagina non c’è mai il caso – inteso come contingenza positiva, l’imprevisto che apre possibilità. Per questo bisogna mantenersi in rapporto ad esso, fregare la mente sul gesto, fare le cose velocemente sperando che quella magia che abbiamo visto una volta così chiaramente, di tanto in tanto, si rimanifesti, altrimenti il fumetto rimane progetto. Per superare questo vicolo cieco, come nel romanzo, bisogna avere il coraggio di lasciare andare, prendersi il rischio di non controllare tutto per farsi sorprendere. Per farlo bisogna sforzarsi di uscire dall’abitudine, per vedere le cose con occhi diversi ed essere pronti ad accogliere l’inaspettato. Per questo nel lavoro di Mattotti improvvisazione e viaggio sono fondamentali: per restare in contatto col proprio istinto bisogna saper guardare.