In poche settimane il cinema è tornato a parlare. Come se gli attori si trovassero su un palcoscenico e i registi tornassero a sperimentare col teatro filmato, la parola torna al centro dell’azione e a muovere l’intera macchina narrativa come il carbone in un treno a vapore. Mettendo da parte Tarantino e i suoi violenti affabulatori, Steve Jobs e The End of the Tour fanno cortocircuito fra cinema, teatro e letteratura a partire da episodi limitati delle vite di due personalità geniali del decennio a cavallo fra il passaggio di millennio. Perché con le notevoli differenze di stile e di scrittura, entrambi i film propongono una risposta alla stessa domanda: come si racconta un genio e cosa lo contraddistingue dall’individuo normale? Entrambi i film rispondono a questa domanda giocando sull’eloquio veloce e sulla naturalezza degli attori.

Se il film sull’impresa visionaria e commerciale di Cupertino ricerca la formula chimica di una vita dentro tre attimi della carriera commerciale e mediatica di Jobs estratti dalla densa biografia di Walter Isaacson, The End of the Tour si stringe attorno ai giorni dell’ultima tappa del tour promozionale di Infinite Jest nel 1996 e al libro-intervista di David Lipsky Although Of Course You End Up Becoming Yourself. Anche qui un momento chiave dell’esistenza del personaggio, colto nella fase di passaggio fra la notorietà e l’acclamazione unanime di genio. E anche qui il dialogo come unica lente di ingrandimento nell’indagine della personalità. O meglio delle due personalità, se si considera che il film adotta lo sguardo di David Lipsky, all’epoca giornalista del Rolling Stone e scrittore in cerca di riconoscimento, e ne fa il contraltare di una dialettica fra velleità e qualità letterarie.

Fra le tante interviste rilasciate da Wallace, quella con Lipsky si distingue infatti non solo per la sua lunghezza e lo sguardo retrospettivo dell’intervistatore, che dal suicidio ci riporta al primo momento di celebrità. È in particolare sulla figura di Lipsky, trentenne newyorkese con un romanzo e una raccolta di racconti alle spalle, che si proietta il film, leggendo nelle parti del libro in cui i due scrittori conversano su successo, insicurezze e senso di inadeguatezza, le potenzialità narrative del conflitto fra i loro ego. Romanziere acerbo ma ambizioso e desideroso di carpire il processo alla base della creazione di un capolavoro annunciato (in fondo, quando ha incontrato Wallace, non era neanche passato un mese dall’uscita americana di Infinite Jest), Lipsky è il soggetto ideale da romanzo americano moderno: il tipico narratore che parla in prima persona restando ai margini, a fianco di un personaggio naturalmente talentuoso, carismatico e capace di cambiare il corso delle cose. Lo script di Donald Margulies, drammaturgo vincitore del Pulitzer con la chiacchieratissima pièce A cena da amici, fa di tutto per presentarcelo così: la telefonata che annuncia la morte, la ricerca dei nastri che fa scattare flashback e ricordi, l’aspetto e le frequentazioni da tipico scrittore a Manhattan. Ma ciò che lascerebbe pensare che il tentativo sia un’impresa alla Aaron Sorkin (trasformare l’intervista Lipsky-Wallace in una drammaturgia classica chiusa nella cornice minimalista da tipico film-Sundance), viene riportato alla normalità e alla semplicità del quotidiano dal personaggio-Wallace. Allo stesso modo, la cornice del road movie che passa dai salotti newyorkesi fino ai centri commerciali e ai diner del Midwest e l’estetica del film indipendente fatto di riprese a mano e fuori fuoco si ammorbidiscono quando seguono la pista del bromance, il racconto di amicizia maschile colto in tutte le sue amenità e i momenti di cameratismo.

Non è un caso che il film dia il meglio di sé quando i vezzi da film indipendente lasciano spazio alle interazioni fra i protagonisti, sia attraverso gli scambi presi testualmente dal libro che lasciandoli liberi di deviare verso il cazzeggio adolescenziale. Se la qualità dei primi si deve ai due soggetti reali, il piacere che deriva dalla visione del secondo è merito dei protagonisti. Jesse Eisenberg e Jason Segel sono l’incarnazione perfetta della doppia anima del nerd contemporaneo: da una parte l’intellettuale un po’ nevrotico, figlio di Woody Allen e incapace di chiosare una conversazione senza tirare in ballo citazioni colte; dall’altra lo spilungone goffo e stonato, sempre apparentemente fuori luogo eppure talmente intelligente da aver bisogno di riportare ogni argomento di conversazione sulla terra per non far fondere il cervello. Vedere due attori così popolari per il loro passato con la commedia e la comicità americana ingurgitare caramelle gommose, parlare di tv e masturbazione ed esultare davanti a Broken Arrow crea un tale corto circuito da far sembrare la cronaca di quei giorni una commedia di Judd Apatow più che una lezione di scrittura creativa.

Certo, poi c’è la realtà. E quella morte prematura e ingombrante a rendere più complessa una lettura generica dei due Lipsky e Wallace dell’immaginario popolare come semplici archetipi della doppia anima di uno scrittore. Per lo stesso motivo che porta tutti i film che mettono in scena scrittori a non concentrarsi mai sul processo di scrittura quanto sulle nevrosi del blocco creativo, The End of the Tour non è un film su come diventare scrittori geniali ma sull’ansia narcisista che ne è alla base. Non un romanzo di formazione, ma una pièce su quel “tipico balletto postmoderno” fra timore e desiderio di apparire che Wallace racconta al suo intervistatore davanti a una salsiccia e a una diet coke. Trattandosi di un balletto, è naturale che il film di James Ponsoldt decida di puntare sull’interazione fra i due personaggi e le naturali oscillazioni di stima e affetto, invidie e incomprensioni. Così come è sano e apprezzabile il fatto che non cerchi di dare una risposta e di rileggere i cinque giorni del 1996 in funzione del suicidio del 2008 (come farebbe un qualunque biopic che desideri concorrere per gli Oscar).

“Non c’è nulla di più grottesco di uno che va in giro a dire: « Sono uno scrittore, sono uno scrittore». È una linea molto sottile. Non mi dà fastidio comparire su Rolling Stone, ma non voglio comparire su Rolling Stone come uno che non vede l’ora di apparire su Rolling Stone” dice Wallace nello stesso passaggio del libro-intervista. Ecco di cosa parla davvero il film. Di questa vanità un po’ schizofrenica che fa sentire inadeguati in ogni situazione sociale ma anche abbastanza terrorizzati dalla solitudine da cercare compagnia nei libri o nei film. E che non riguarda solo gli scrittori geniali, ma anche i lettori (o gli spettatori) ben più mediocri.

The End of the Tour di James Ponsoldt, USA 2015, 106′, in sala dal 11 febbraio (Adler Entertainment).