Dallo hallyu (la wave coreana di fine millennio) a oggi, il cinema sudcoreano più interessante è sempre stato fortemente connotato in senso politico. I ricordi di repressione che riaffiorano in Peppermint Candy o i colpi di stato alla Vogliamo i colonnelli di The President’s Last Bang guardano nella medesima direzione: quella dei decenni difficili, e difficilmente dimenticabili, contrassegnati dalla violenza di un governo autoritario. Oggi che il tema è più che mai attuale, considerato l’esito delle recenti elezioni – vinte proprio dalla figlia del dittatore Park – e i prevedibili strascichi verificatisi in termini di libertà artistica e culturale, a crescere è solo la necessità di camuffare la propria protesta, analogamente a quanto compiuto dal potere politico, appena ricoperto da una passata di vernice democratica. La Corea del Sud ha avuto a disposizione pochi anni per elaborare i propri lutti e misfatti, per sottoporsi a una necessaria seduta di autoriflessione collettiva, prima di tornare al tempo delle allegorie e dei simbolismi, del messaggio celato tra le righe del racconto fantastico. Alla maniera di George A. Romero che nel 1968, quando il mondo contestava al grido di “Dans la rue!” o bruciava bandiere, già vedeva più in là e scrutava nel cuore nero d’America, negli abissi insondabili della natura umana, destinata a rivelarsi appieno quando le spalle sono contro il muro e lo stato è di emergenza totale. Quando “solidarietà” non è più uno slogan, ma significa aiutare un’altra vita rischiando di sacrificare la propria.

Il lavoro di Yeon Sang-ho, fin dagli inizi, è attraversato da questa sete di giustizia. Una rivendicazione sociale che intende raddrizzare torti decennali e che si affida al cinema di animazione, per necessità di budget ed esigenze di maggiore libertà nell’affrontare tematiche e immagini di rara crudezza. The King of Pigs (2011), in particolare, rievoca con lucido realismo gli anni difficili di due vittime del bullismo scolastico, cresciute recando i segni indelebili di una gioventù spezzata. E se la violenza tra i banchi di scuola e il fascismo insito nelle logiche del branco sono topoi ricorrenti del cinema sudcoreano per ragioni storiche ben precise, Yeon avanza un passo oltre, soffermandosi sul dolore psicologico e sull’inadeguatezza alla vita senza mai ricorrere al riscatto fumettistico dello Yoo Ha di Once Upon a Time in High School. Non c’è via d’uscita dal loop nichilista di una società capace solo di coltivare odio, invidia e prevaricazione. La galleria di personaggi di Yeon è un’escalation che procede spedita verso la totale assenza di umanità. Il passo ulteriore, la metafora romeriana degli zombi e la tabula rasa da armageddon insita nella loro diffusione virale, è quanto mai breve. Yeon concepisce quindi un dittico, composto per metà da una parte di animazione (Seoul Station) e per metà da una componente live action, che prende il nome di Train to Busan. È quest’ultima a raggiungere prima gli schermi e in particolare quelli del festival di Cannes; e di lì a conquistare le sale cinematografiche dell’Estremo Oriente, polverizzando record di incasso in patria e a Hong Kong, trascinando al cinema più di dieci milioni di spettatori. Quali sono le ragioni dell’incredibile successo di uno zombie movie che, dichiaratamente e manifestamente, in ogni frame, non fa nient’altro che aderire a un sottogenere, senza mai metterlo in discussione?

Yeon sfrutta il contagio per spogliare di ogni orpello sociale la natura umana, mettendola di fronte a una spietata forma di darwinismo accelerato. La separazione in caste dalla fortissima disparità, prima di subire il reset forzato dell’esercito di non-morti, scatena l’ultimo colpo di coda del ceto privilegiato, con una crudeltà che Ridley Scott in Alien riservava solo a un androide. Come si scopre recuperando il prequel di Seoul Station, il virus si diffonde da principio tra i senzatetto che affollano la stazione della capitale, senza che nessuno presti loro soccorso, quasi auspicando che gli sgradevoli homeless si sbranino tra loro. Una volta dilagato il male, resta solo il vano ricorso alla violenza indiscriminata della legge marziale o la volontà eugenetica di un CEO avido, che probabilmente ha in mente il medesimo “nuovo mondo” del kubrickiano dottor Stranamore per rifondare la specie umana. Anche qui, nulla di nuovo. Postmodernismo senza la minima intenzione di alterare il canone delle fonti, almeno in apparenza. Ma l’operazione che Yeon compie in Train to Busan, assai più che nelle opere precedenti, è una semplificazione del proprio linguaggio e una sua contaminazione con i codici televisivi, fino all’adozione del formato 1.85:1. Tempi particolarmente difficili necessitano di un idioma particolarmente semplice che si serva di archetipi chiari ed evidenti – il manager, l’operaio, lo sportivo, il clochard – per raccontare cosa sta succedendo in una nazione proiettata verso la ricchezza e la smania estetizzante da smarrire le corrette e naturali priorità su cui si regge la comunità umana. Alla maniera del John Ford di Ombre rosse, con il pericolo situato all’interno del treno-diligenza ancor più subdolo e pericoloso e la minaccia della massa senza volto ammantata da un’aura di giustizia sterminatrice. Il sonno dell’educazione civica genera mostri illiberali e Yeon non fa che registrarlo, tra un morso di zombie e l’eroismo non comune di un uomo comune, su un treno che nuovamente, dopo Snowpiercer di Bong Joon-ho, diviene riproduzione in miniatura di una società più che imperfetta. Ma che forse – come lascia presagire l’epilogo di Train to Busan, in fondo il lavoro più ottimista del corpus dell’autore – ha ancora una chance di redenzione a cui aggrapparsi disperatamente.