«Gli italiani ne hanno viste troppe, le conoscono tutte. Non puoi fotterli. Non ti seguono sopra la montagna così, per nulla. Ma dopo averci parlato, dopo averli convinti, le cose cambiano. Chi lavora nei miei film, come l’attore di Agostino, vuole cambiare qualcosa, ed è pronto a farlo anche a costo di rinunciare ad altri lavori meglio pagati. Se accettano di partecipare, lo fanno prima per il cinema, e poi perché vogliono capire fin dove riescono a spingersi. Vogliono essere protagonisti in prima persona di questa ossessione!»

Amir Naderi

PRIMA SETTIMANA Il funerale di Sara, figlia di Agostino e Nina. Amir spiega per venti minuti ad Andrea Sartoretti e Roberto Cimatti come dev’essere preso un cumulo di terra. Ho avuto come la sensazione che avesse, in qualche modo e in qualche tempo, già vissuto tutto quel che stavamo filmando.

PRIMA SETTIMANA Una settimana passata trascinando l’attrezzatura da una parte all’altra del Monte di Amir. Dopo i primi sei giorni alle pendici del Latemar, avevamo già avuto un assaggio di quanto possano cambiare le temperature a 2200 metri. Al mattino, quando le cime si opponevano alla luce del sole, ci aggiravamo attorno ai cinque gradi. Nel pomeriggio invece, il sole diventava ingombrante e rovente. Era la stagione di Amir, imprevedibile.

SECONDA SETTIMANA Una mattina ho accompagnato Amir dall’albergo al set con il mio fuoristrada e lui, incollato al finestrino a guardar le cime bianche, mi fa: “Federico vedi, la montagna non ci vuole più. Ma ci deve sopportare ancora, almeno per un po’!”.

SECONDA SETTIMANA L’interno della casa di Agostino e Nina: a dispetto di quanto si possa pensare, è stata la location più difficile da affrontare. Le lampade a olio saturavano completamente l’ambiente di fumo. Ricordo che il primo giorno di girato in interno, con gli altri ragazzi della troupe ci sfidavamo per entrare e beffare le basse temperature. Si usciva da quella stanza ricoperti di fuliggine e affumicati, bramando una boccata d’aria fredda.

SECONDA SETTIMANA Durante la scena in cui Agostino gira per il villaggio deserto cercando Nina e suo figlio, le camere sembravano sotto assedio, strette su un trespolo. Di lì a qualche ora, Amir mise le tre macchine a un centinaio di metri l’una dall’altra, a triangolo. Gianfranco Tortora, il fonico, impegnato nel cercare un lembo di terra dove rintanarsi, continuava a ripetere “questa è una trappola, questa è una trappola”.

TERZA SETTIMANA “What are you doing, Jesus?” Una quarantina di persone, quel giorno, hanno imparato come si tiene in mano un arco.

TERZA SETTIMANA Dovevamo smantellare il villaggio in fretta e furia poiché a breve quell’area sarebbe tornata ad esser una pista sciistica, mancavano però da girare alcuni totali dall’alto. Ci incamminammo allora con in spalla una Alexa e lo stretto indispensabile (non così stretto), fino ai 2800 metri della cima del Latemar.

QUARTA SETTIMANA Il set si sposta a 2300 metri, raggiungibile in venti minuti soltanto a piedi e con l’aiuto di un piccolo quad. Anche noi abbiamo abbandonato il villaggio. E’ stata la settimana più dura, segnata dalla pioggia battente e da lunghe camminate nel fango.

[Diario fotografico di Federico Vagliati, fotografo di scena]

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THE SQUIDS ARE THERE!

In una staffetta ideale riparto da dove Federico Vagliati si è interrotto: la quarta settimana. Il diario di bordo nella mia testa prende la forma (e devo subito arrestare questa tentazione) del magnifico dialogo in macchina di Dan O’Bannon in Dark Star di John Carpenter. Mi verrebbe da dire che in realtà non sono mai stato il produttore del film, che non ho mai conosciuto Gerardo Panichi e Rino Sciarretta, gli altri astronauti sulla navicella, e che trovandomi sul Latemar in cerca di funghi mi è stato inavvertitamente assegnato quel ruolo.

E in parte potrebbe essere anche così. Non si è mai preparati abbastanza quando l’ossessione diventa una prassi, una necessaria spinta verso un cinema distillato, reso puro da un’energia cieca, il più delle volte inauditamente violenta. Questo è il cinema di Amir Naderi. Finirci dentro è come partire per lo spazio senza averne coscienza. L’unico dilemma che produttivamente si ha davanti è mettere fine a questa follia, dispersiva, antieconomica e a volte amara o continuare fino in fondo.

Cercando le risorse più impensate, l’ultimo sprazzo di energie residuo si indossa l’elmetto e si parte, mentre tutto intorno lotta contro di te, perché la furia cieca di Amir non concepisce la produzione, esiste il gesto, il resto è la gabbia che cercherà di abbattere dal primo giorno di preparazione fino all’ultimo giorno di montaggio. I film dovrebbero farsi da soli, nella sua concezione. Il suo più intimo desiderio, una sorta di paradiso agognato, è un mondo dove i produttori siano tutti morti, dopo aver finanziato i film, però.

Questa natura paradossale, devo ammetterlo mio malgrado, è quella che rende il suo cinema e questo film grande. Non dovrei dirlo perché accettarlo significa, almeno per un periodo circoscritto, essere nel mezzo di uno scontro, in cui le incomprensioni, le ribellioni, gli ammutinamenti assomigliano a quelli di un esercito che si scontra con un nemico troppo grande: la montagna, il costo del film, la fatica. Ci sono i soldati più fedeli ad Amir “Kurtz” Naderi (ho rabbrividito a volte nel vedere lo scintillio di Marlon Brando nel suo sguardo), Maryam Najafi, assistente personale e mediatrice tra il farsi e l’inglese, Donatello Fumarola, collaboratore alla sceneggiatura e assistente, e poi alcune falangi a volte pronte a sacrificarsi a volte umanamente stanche e inclini alla ribellione. In tutto questo puoi sopravvivere solo amando il cinema, credendo come ormai faccio da anni, che alla fine forse il vero mondo sarà nel film finito, che avremo costruito una contro-società dove abitare con la stessa purezza. “The Squids are there!” mi diceva Terry Malick con grande soddisfazione quando finalmente la scena dei calamari prendeva una forma epica nel capolavoro Voyage of Time, e io sono con lui, viva i calamari! Sì, sono lì come nostri compagni, nostri sodali e a un tratto tutto svanisce nel cinema, nel film: la fatica, la rabbia, lo sconforto, la vessazione, il ricatto. I film ci sopravvivono, per fortuna, ecco quindi il mio giardino dell’Eden: tutti i registi, quelli più bravi e ostinati, sono diventati calamari e si muovono placidi con il manto ondeggiante, fino a quando qualcuno di loro non spruzza dell’inchiostro nero in macchina. Buio. The End.

Alle quattro settimane di Federico Vagliati ne vanno aggiunte altre due, quasi tre, in cui la montagna ci ha accettato, cacciato, riaccolto e dal Latemar è partita una nuova battaglia in Friuli a Erto e Casso e poi ad Andreis, nuove sfide, nuovi attacchi, nuovi ammutinamenti, ma poi il film è arrivato, con la sua forza non compromessa. Chiudo di nuovo con Dark Star: mentre i due protagonisti si allontano nello spazio siderale, questa la battuta che chiosa il racconto “Se ci rivedremo, certo rideremo.

[Carlo Shalom Hintermann, produttore, Citrullo International]