Il cinema contemporaneo, costretto ai compromessi della rivoluzione digitale, attraversa un’epoca di riconfigurazione degli scenari, un momento cruciale in cui le opere più stimolanti risultano spesso da strategie e approcci diametralmente opposti. Alle ibridazioni di una generazione di registi-artisti per i quali il cinema non rappresenta che una delle forme di una più ampia pratica crossmediale, si contrappone la ricerca di una nuova classicità, o meglio, la ricollocazione dell’idea di classico in tale scenario eclettico e frammentato. Per decriptare le tendenze, è utile analizzare i percorsi dei singoli autori, riscontrarne originalità e somiglianze. Prima di diventare regista, il portoghese Joao Nicolãu ha cominciato il suo percorso lavorando come montatore, con una rapida evoluzione che lo ha portato, in pochi anni, dai primi progetti di stampo etnografico alla collaborazione con Miguel Gomes e altre figure di spicco del cinema europeo contemporaneo. L’esordio alla regia, con due corti subito presentati alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes, seguiti dal primo lungometraggio, A Espada e a Rosa (2010), non gli ha impedito di continuare a ricoprire il ruolo di montatore in alcuni progetti, fra i quali l’opera prima e il secondo film dell’italiano Alessandro Comodin (L’estate di Giacomo, I tempi felici verranno presto). Seppur distanti nel metodo e nella forma, i due autori hanno dato vita a un affascinante sodalizio, basato sulla ricerca di un’idea di cinema complementare al tavolo di montaggio: Comodin, infatti, ha recentemente affiancato Nicolãu come montatore del suo ultimo lungometraggio, John From. I film di Nicolãu, tutti girati in pellicola a eccezione di rare incursioni digitali sul breve formato, fanno parte a pieno titolo dell’ondata di rinnovamento proveniente dal Portogallo e trovano la propria potenza di sguardo in un equilibrio consapevole tra ricerca realista e atmosfere sognanti, tra precisione formale e piena libertà visiva.

Filmidee: Qual è stato il tuo percorso? Come sei arrivato a fare cinema, prima come montatore e poi come regista? Hai frequentato una scuola o corsi specifici di regia e montaggio?

Joao Nicolãu: Non ho mai avuto il sogno di fare film, né ho mai frequentato una scuola di cinema. Ho studiato antropologia e, solo intorno ai trent’anni, ho cominciato a usare una videocamera e a interessarmi all’uso delle immagini, presentando alcune ricerche in forma di video. Allora mi sono trasferito a Manchester, dove ho conseguito un diploma in Visual Anthropology; il corso, di natura pratica, era rivolto a quanti intendessero utilizzare il linguaggio audiovisivo come strumento di ricerca. La mia tesi è stata il cortometraggio documentario Calado Não Dá (You Can’t Live With Your Mouth Shut, 1999), completamente autoprodotto, che a mio avviso non può essere considerato un lavoro cinematografico compiuto, tutt’al più una ricerca illustrata. Una volta tornato in Portogallo, ho mostrato il lavoro all’interno di alcuni festival dedicati al video e ho ricevuto le prime proposte come montatore. All’inizio, si trattava di lavori puramente etnografici, poi documentari nel senso più ampio del termine e, in seguito, sono arrivati anche i primi film di fiction. Mi ritengo fortunato, perché ho avuto la possibilità di apprendere la tecnica di montaggio sui vari progetti. A un certo punto, ho deciso di mettermi alla prova, dirigendo io stesso un cortometraggio di finzione. Con Rapace (Bird of Prey, 2006) ho capito che girare, la fase delle riprese, mi piaceva. È stata una grande sorpresa, perché questa scoperta è arrivata in un momento in cui ero ormai abituato alla sala di montaggio e non all’ambiente del set, con le sue professionalità e le sue macchine. Così ho compreso che mi sarebbe piaciuto continuare a dirigere e, anche in questo caso, posso dirmi fortunato per averne avuto l’opportunità, pur mantenendo parallelamente il mio lavoro di montatore.

FI: Questo cortometraggio è stato oggetto di attenzione da parte di alcuni festival? Ti ha aperto la strada verso il primo lungometraggio?

JN: Sì, sia Rapace che il corto successivo, Canção de amor e saúde (Song of Love and Health, 2009), sono stati presentati alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes; quest’ultimo ha anche ricevuto il premio come miglior film nella competizione portoghese del festival Curtas Vila do Conde. I risultati sono stati senza dubbio un incentivo nel percorso verso il primo lungometraggio. Ma ci tengo a sottolineare che per me, a livello di compromesso o di investimento (quantomeno personale, autoriale), non c’è alcuna differenza tra le due forme. È una legge imposta dal sistema europeo, quella per la quale i corti rappresentino unicamente un esercizio registico, propedeutico alla realizzazione di un lungometraggio. Per me, se non sul piano economico, non c’è differenza. Infatti, tra il primo e il secondo lungometraggio, ho girato altri due corti e continuo tuttora a lavorare su progetti di ogni durata.

FI: Il tuo percorso incrocia l’antropologia visuale e oggi diversi documentaristi e cineasti sperimentali condividono questo tipo di formazione. Nel tuo caso però, è interessante come la stessa esperienza ti abbia condotto a un modello classico di pura finzione. Cosa ti ha spinto in questa direzione?

JN: È stato un processo di trasformazione: non mi sono imposto, né ho pianificato nulla. È vero che, avendo formato il mio sguardo su una piccola videocamera, non appena ne ho avuto la possibilità, ho sentito la necessità di confrontarmi con una macchina produttiva “pesante”. Per me il cinema era quello: la pellicola in formato 35mm, qualcosa di grande. Ma sono arrivato alla finzione anche per una forma di delusione, dato che i miei progetti di documentario, scritti mentre lavoravo a tempo pieno come montatore, non erano stati finanziati. All’inizio, quando non hai curriculum come regista, può capitare. Anche questo fa parte del sistema. Quando ci ho riprovato con il progetto di Rapace, ero ormai conosciuto come montatore, avendo lavorato su alcuni film prodotti da O Som e a Fúria (la società portoghese che produce, tra gli altri, anche Miguel Gomes). Proprio con questa società ho presentato la domanda di finanziamento, e tutto è stato più facile. Da allora, O Som e a Fúria ha prodotto tutti i miei film. In un certo senso, all’inizio, c’è sempre un margine di casualità.

FI: Il tuo primo lungometraggio, A Espada e a Rosa (The Sword and the Rose, 2010), è la storia di un ragazzo di circa vent’anni che, in un periodo critico della sua vita, si imbarca su una vera nave di pirati del XV secolo e parte per un’avventura. È un’opera prima che dimostra un’idea di cinema già chiara, caratterizzata da un forte senso del comico, che trova espressione nell’uso consapevole del linguaggio cinematografico, con coreografie impeccabili tra macchina da presa e attori. La comicità è la chiave: innesca e normalizza lo stratificarsi di elementi fantastici che progressivamente sconvolgono la realtà iniziale. Come sei arrivato a questo film e a questa strategia narrativa, che si ripropone anche in John From?

JN: In generale, nei miei film i protagonisti hanno bisogno di inventarsi un mondo nuovo in cui vivere. In John From e nei corti più recenti mi interessava mostrare lo stravolgimento delle regole operato dai personaggi; ma nei primi corti e in questo lungometraggio succede qualcosa di simile, a un livello diverso: è come se le nuove regole fossero già state fatte, e le si accetta in partenza. Il percorso è stato lineare, ma travagliato. I miei produttori, soddisfatti dal riscontro positivo dei corti, mi hanno offerto la possibilità di scrivere un lungometraggio. Ho commesso l’errore di voler rendere la sceneggiatura un oggetto compiuto, autonomo. Quasi un libro. Abbiamo dovuto tagliare molto: era un progetto impensabile come opera prima, considerato il budget a disposizione. Il titolo The Sword and the Rose rimanda alla prima ispirazione, all’immaginario delle classiche storie di pirati. Anche la lavorazione è stata complicata: il formato era sempre il 35mm, con metà delle scene da girare in mare e a volte più di venti persone in scena, tra attori e comparse. Inoltre avevo bisogno di sentirmi davvero in mare aperto, senza alcun contatto visivo con la costa, quindi le difficoltà logistiche hanno ridotto le ore di ripresa e abbiamo ampiamente sforato il numero di giorni previsto dal piano originario. Le condizioni di lavoro mi hanno anche dettato alcune scelte formali, infatti ho girato molti piani sequenza per ottimizzare i tempi di ripresa. Certo, è stata anche una scelta stilistica, ma è innegabile che da quel momento in poi ho dovuto rinunciare a qualunque eccesso nel découpage, per evitare di rendere il film esteticamente poco coerente.

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FI: In termini di qualità e versatilità, le tecnologie di ripresa digitali hanno raggiunto uno standard impensabile fino a soli dieci anni fa, quando tu hai esordito. Il digitale offre possibilità pressoché infinite, soprattutto in post-produzione. Eppure, sempre più registi scelgono di continuare, o ritornano, a lavorare con la pellicola. Cosa ti lega a questo supporto?

JN: Trovo che la scelta del supporto di ripresa sia simile a quanto avvenuto in precedenza in pittura: l’introduzione dei colori acrilici non impedisce di continuare a dipingere con quelli a olio. Per me non è una posizione, solo la scelta di una materia che mi permette di bilanciare al meglio gli elementi della mia ricerca. Indubbiamente, sta diventando difficile: per John From, che è stato girato in 16mm, abbiamo dovuto sviluppare la pellicola in Francia, perché in Portogallo e in Spagna non ci sono più laboratori; fortunatamente avevamo una co-produzione francese e abbiamo potuto spendere una parte del budget a Parigi. D’altronde, compiere scelte è l’essenza stessa del fare cinema e scegliere la pellicola implica delle rinunce, sul compenso o sui giorni di lavorazione. E questo apre alla questione del metodo: l’analogico ti proietta in un universo limitato dove non puoi sempre girare, e così ti prendi il tempo per pensare. Lo stesso vale per la scelta di una troupe pesante, numerosa: si dice sempre che avere una troupe di pochi membri permetta di lavorare meglio, che sia più agile ed efficace. Ciò che riscontro nel mio lavoro di montatore, sui progetti di altri registi, è che avere la possibilità di girare troppo materiale, spesso distoglie l’attenzione dal centro del film. Per esempio, io trovo importanti le prove con gli attori: è quella la parte più creativa del mio lavoro, quella in cui mi diverto e sperimento, in modo tale che sul set tutto semplicemente funzioni. Lo faccio perché so che durante le riprese non ne avrò la possibilità, ci saranno troppe persone intorno a me e avrò un margine di errore limitato per via del costo del supporto.

FI: John From si apre con la quindicenne Rita che, in una Lisbona immersa nella calura estiva, si affaccia dal balcone del suo appartamento e quasi per gioco decide di innamorarsi del vicino di casa, un fotografo alle prese con l’allestimento di una mostra di suoi scatti sulla Melanesia. Il film è un vortice onirico, la trasfigurazione del quartiere a opera delle fantasie di Rita, che lo ripopolano di visioni ispirate alle culture del Sud Pacifico. È evidente una duplice polarità: da un lato una scrittura puntuale e una forte messa in scena, dall’altro la ricerca continua di uno spazio di improvvisazione e di libertà in cui le cose possano semplicemente accadere e lasciarsi catturare dalla macchina da presa. Come ottieni questo equilibrio?

JN: Non c’è una formula. O forse non ho ancora fatto abbastanza film da poter dire di averne maturata una; non so nemmeno se sarebbe una cosa positiva. Mi limito a mantenere ciò che mi sembra funzionare in un progetto, in quello successivo. Ho impiegato un anno a scrivere il mio primo lungometraggio e invece per John From sono bastate tre settimane. Mi piace dare spiegazioni esaustive ai miei collaboratori e nella scrittura delle scene ci sono sempre descrizioni molto dettagliate che possano ispirare ogni reparto. Ma ho capito che descrivere troppo distoglie l’attenzione dal racconto: c’è un equilibrio da trovare. Progressivamente, ho anche ridotto il numero dei dialoghi e dato più spazio agli altri suoni, o al silenzio. Con gli attori, inizio a lavorare durante le prove, con una dinamica simile al teatro. All’inizio, non ho mai idea di dove sarà la macchina da presa, parto da una stanza vuota e provando capisco come procedere. Non appena ne ho la possibilità, continuo le prove nei luoghi in cui gireremo. E lì scelgo le mie inquadrature: è un momento cruciale, in cui decido anche se taglierò dei dialoghi o modificherò qualunque altro elemento. Sono soddisfatto del processo che ha portato a John From perché, prima ancora di scrivere il soggetto, io e mia sorella, che ne è stata co-autrice, ci siamo dati due limiti: uno di spazio, quello del quartiere, e uno rispetto al numero di personaggi, il minore possibile. Dopodiché abbiamo scritto due o tre possibili soggetti e abbiamo scelto quello che sarebbe diventato John From. Molto rapidamente, abbiamo dimenticato perché ci fossimo dati quei paletti, che hanno però reso il film compatto, permettendoci di sfruttare al meglio le sette settimane a disposizione. Il fatto che lavorassimo con una ragazzina ci ha imposto una settimana lavorativa più breve e anche un’intera settimana di pausa per permettere alla nostra attrice di raggiungere in vacanza la famiglia e gli amici: questo ha aiutato anche noi. È incredibile quanto sia faticoso girare un film e bisogna imparare a gestire le energie, in modo che almeno il regista e le figure della produzione siano sempre lucidi. Lavorando cinque giorni su sette si ha un giusto equilibrio, con un giorno di riposo e uno per organizzare la settimana successiva. Una meticolosa preparazione e una corretta gestione delle energie sono la chiave per essere reattivi e ispirati durante le riprese.

FI: Visto che l’hai menzionato, vorrei approfondire la questione riguardante la scelta del quartiere. John From, in alcuni aspetti, ricorda Bellas Mariposas di Salvatore Mereu: la centralità di due ragazze giovanissime, con la loro spigliatezza e lo sguardo spesso rivolto in macchina, ma soprattutto una trasfigurazione del reale marcata, all’interno di uno spazio circoscritto, che non è una città ma un singolo quartiere. Guardando il film, non si pensa subito a Lisbona, non sono riconoscibili luoghi o monumenti famosi. Viene spontaneo chiedersi: perché quel quartiere?

JN: Fin dalla fase di scrittura ci era chiaro che il quartiere fosse uno dei protagonisti: un personaggio non umano, ma non per questo meno caratterizzato, presente. La scelta è stata dettata da diversi fattori. In primo luogo è un quartiere recente, progettato e costruito negli anni Ottanta, con un’architettura al suo interno uniforme e molto diversa dal resto di Lisbona, che è una città antica e stratificata. Ho trovato che in quel quartiere gli edifici avessero un loro linguaggio, una specificità di linee e colori dalle grandi potenzialità visive. Se avessi girato in un qualunque altro quartiere, per quanto affascinante, mi sarei trovato ad affrontare del lavoro non necessario, mi sarei dovuto confrontare con la storia di quei luoghi. C’è inoltre un legame personale: sono cresciuto in quel quartiere, e ci vivo tuttora. Non è un film autobiografico, ma mi è sembrato funzionale muovermi in un territorio che conosco a fondo, provare l’esperienza di arrivare sul set camminando.

FI: Abbiamo citato il tuo lavoro come montatore per Alessandro Comodin, sia nel recente I tempi felici verranno presto che nella sua opera prima, L’estate di Giacomo. Ma Comodin è stato a sua volta il montatore di John From. Nel suo cinema, è evidente come il montaggio sia una fase di riscrittura del film, il momento in cui la sceneggiatura si finalizza alla luce del materiale girato. Come si è evoluto questo rapporto, a livello umano e professionale? Quali sono le differenze tra i due approcci?

JN: Il mio cinema e quello di Alessandro trovano, nel campo di indagine e nel risultato finale, molti punti in comune, ma percorriamo strade completamente diverse. Per Alessandro, la sceneggiatura è solo un pretesto per cominciare a filmare, un pretesto per cercare. Nel mio caso è l’opposto: la scrittura è dettagliata e mi piace curare minuziosamente la messa in scena. Alessandro non ripete quasi mai lo stesso take, io invece procedo con serie di ripetizioni. Ciò non significa che il montaggio non riservi delle sorprese, per questo mi piace farmi affiancare da qualcuno che affronti il materiale per la prima volta. Quando ho montato L’estate di Giacomo, sono rimasto stupito dalla grande libertà che Alessandro mi ha concesso. Per un regista è difficile separarsi da scene che hanno comportato lavoro, nei confronti delle quali c’è spesso un coinvolgimento emotivo. Ma lui è stato molto aperto da questo punto di vista: abbiamo tagliato un’intera parte del film, quella in cui il protagonista segue delle sessioni di logopedia, e con essa praticamente un anno del suo lavoro. Imparare a lasciarsi delle cose alle spalle è difficile, ma Alessandro è riuscito a fidarsi del mio sguardo esterno fin dal primo momento.

FI: Nei tuoi film, si percepisce la presenza di una dimensione ludica: il linguaggio cinematografico e i numerosi effetti di montaggio vengono utilizzati con il preciso intento di dare vita a un gioco, ti consentono di divertirti con lo spettatore.

JN: Il lavoro del montatore può, in alcuni passaggi, limitarsi alla selezione e all’assemblaggio, mentre in altri rimarcare una posizione autoriale, rompere il mimetismo della narrazione. È questo il caso degli effetti. Quando li uso, trovo giusto dichiararne la presenza e renderli evidenti, prediligendo i fondamentali della tecnica di montaggio (ripetizione, accelerazione, jump-cut, ecc.). Sono decisioni che prendo quasi sempre con chi mi affianca, e a volte è difficile scegliere: bisogna fidarsi del proprio istinto. L’unica regola consiste nel cercare di tenere nel film ciò che piace e funziona, perché in quel momento si è i primi spettatori. Per esempio, nella prima parte di John From, c’è una sequenza in cui la protagonista sta giocando ad acconciarsi i capelli con la amica, quando riceve un messaggio da un ragazzo, al quale decide di non rispondere. Con Alessandro, abbiamo provato a montare la scena in modo lineare e poi usando differenti inquadrature, sforzandoci di capire quale fosse la soluzione più efficace. Abbiamo deciso di tenere l’effetto di ripetizione, perché è il primo momento in cui chiamo in causa lo spettatore e gli chiedo di impegnarsi nella visione. Soprattutto, volevo dare importanza al telefono: succedono cose importanti oggi con i cellulari e, sebbene molti trovino poco nobile filmare gli schermi dei dispositivi elettronici, in questo film mi sembrava efficace sottolinearne la presenza.

FI: Uno degli elementi d’impatto dei tuoi film è il sonoro, con un montaggio mai unicamente descrittivo e una notevole ricercatezza nei brani musicali. Tu sei un musicista e, in John From, sei accreditato anche come montatore del suono: è chiaro che da parte tua ci sia un’attenzione in prima persona per le questioni legate all’audio. Come procedi?

JN: A volte, per via delle immagini potenti che abbiamo davanti, ci dimentichiamo che la dimensione sonora è essenziale. Anche per il suono, prediligo elementi semplici con cui si possa giocare. In generale, non credo che potrei mai lavorare senza l’audio in presa diretta: non mi piace il doppiaggio e preferisco scegliere delle location che abbiano un suono ambientale adeguato al progetto. Certo, il mio non è un cinema che ammetta fondamentalismi: ci sono situazioni in cui bisogna adattarsi perché, se ad esempio ho bisogno di girare una scena in una strada trafficata e non mi piace il suono delle macchine, non dovrei girare affatto. Questo non è possibile, non fa parte del mio cinema. Ma c’è di sicuro un piacere nel poter scegliere e curare i materiali sonori con cui lavoro. Lo stesso vale per la musica; la scelta e la composizione dei brani ha inizio già nella fase di scrittura, fin dal primo giorno di ideazione del film. È un processo parallelo. Un altro punto in comune tra me e Alessandro Comodin sta proprio in questo, nel montare alcune inquadrature per come suonano e non per come appaiono, in virtù del loro potenziale sonoro. In sala, è bello potersi permettere, anche solo per un istante, di chiudere gli occhi e di abbandonare la visione per dedicarsi all’ascolto.

FI: Come pensi di poter sintetizzare e descrivere la tua idea di cinema?

JN: Con Alessandro Comodin, utilizziamo l’espressione “metodo socialista”. Con ironia, perché l’aggettivo non ha un valore strettamente politico, ma rimanda a un’idea di condivisione del processo e del suo risultato: i film si fanno con le persone, e per le persone. Non credo nella figura del regista che si limita a dirigere, mi è impossibile pensare di lavorare senza coltivare un rapporto umano con i miei collaboratori. Allo stesso modo con gli attori, siano essi professionisti o non professionisti, mi piace stabilire delle relazioni; per questo motivo il primo casting è sempre un momento in cui mi limito ad ascoltare, senza chiedere di recitare. Anche in questo sta l’importanza delle prove, hanno un valore etico, mettono tutti nella condizione di arrivare sul set con la giusta consapevolezza. Lo stesso vale per il film finito: non posso dimenticare che avrà un pubblico, e mi sforzo di non ingannarlo, provo a sottoporgli qualcosa che non lo intenda come passivo, ma lo chiami in causa e lo stimoli intellettualmente.

(intervista realizzata durante la Filmidee Summer School 2016)