Non si tratta di un remake, hanno ribadito a più riprese Sofia Coppola e Thierry Frémaux, e forse sarebbe stato meglio che non lo fosse. La verità è che The Beguiled, presentato ieri in competizione a Cannes, è una copia piuttosto scialba del film girato da Don Siegel nel 1971, forse la sua opera più coraggiosa e personale (“a mediocre Tennessee Williams play staged by Sam Peckinpah as a third-wave-feminist horror film”, ha scritto giustamente qualcuno). Coraggio e originalità che mancano alla versione realizzata dalla Coppola, forse perché lontana dai suoi ambiti d’elezione, o forse solo perché vissuta come progetto di ripiego dopo l’abbandono di The Little Mermaid. Poco importa: manca, nel film, il senso del morboso che si respirava nel film di Siegel, in particolare nella seconda parte, quella più propriamente gotica. Quella in cui il film della Coppola cede maggiormente, sacrificando la tensione e quanto di buono aveva costruito nella prima in termini di allure seduttivo, affrettando i tempi della virata al tragico.

Non che gli ingredienti per la buona riuscita siano del tutto assenti, a cominciare dal cast femminile, le sette donne di varie età rimaste nel collegio sudista durante la guerra di secessione, intente a imparare il cucito e studiare francese mentre gli echi dei cannoni rimbombano in lontananza. Poco oltre la soglia della loro isolata magione vittoriana, appoggiato a un albero, un soldato nordista in fin di vita viene tratto in salvo e curato amorevolmente, solleticando gli istinti di coloro che lo accudiscono. “Let’s show him some real southern hospitality”, suggerisce con una punta di malizia la padrona di casa (Nicole Kidman), e le altre sono ben felici di partecipare. In particolare Edwina (Kirsten Dunst) e Alicia (Elle Fanning): la prima cede alle lusinghe romantiche dell’invalido, pronto a lodarne i lineamenti angelicati; la seconda punta a soddisfarne gli appetiti, e sarà la causa dell’incidente che conduce al violento epilogo.

Nonostante le premesse, il film è sorprendentemente morigerato, e le scene clou tirate via come se non si vedesse l’ora di arrivare alla fine (per una volta, 15 minuti in più potevano starci). I toni gotici dell’originale sono distanti, forse perché la Coppola non è interessata alla carnalità di corpi e sentimenti, quanto piuttosto al suo affiorare in superficie, rivelandosi tra le pieghe degli abiti, in dita che sfiorano tazze da tè, nei panni stesi che ondeggiano sotto i salici, in un ago che penetra la stoffa. E resta allora un che di inappagato, pure nella consistenza del film: come il bel soldato nordista si fa specchio del desiderio per ciascuna delle sette – compresa una delle più piccole, che vorrebbe condividere con lui la vista di scorci campestri e nidi d’uccelli –, così il film sfugge negando la natura profonda della storia che racconta, sottraendosi alle attese, castrando la passione. Quantomeno quella di chi vorrebbe che sotto la superficie ci fosse altrettanta bellezza. E Sofia Coppola si conferma regista della noia, che nessuno sa filmare come lei, ma anche sua prigioniera, perché incapace di fuggirla. [Alessandro Stellino]


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A DENTI STRETTI

Tenuta in serbo per gli ultimi giorni, arriva una bella sorpresa nella sezione Un Certain Regard: Tesnota (Closeness) di Kantemir Balagov, opera prima che vede tra i suoi produttori anche Alexander Sokurov. Ma non c’è nulla di più lontano dai lavori del grande autore russo di questo film in apparenza semplice e diretto, quanto invece studiato in ogni inquadratura e stratificato nella sua portata espressiva.

Fine degli anni Novanta. In una cittadina nel Nord del Caucaso, Ilana – una ragazza di ventiquattro anni, ruvida e irrequieta – lavora con il padre in un’officina. Aggiustare i motori non è un gioco da ragazze ma lei, con piglio risoluto, sembra padroneggiare ogni situazione. A casa, suo fratello minore sta per festeggiare il fidanzamento: la comunità di ebrei a cui appartengono si riunisce per la celebrazione. Ma nella notte i due giovani fidanzati vengono rapiti: la famiglia di Ilana decide di non affidarsi alle autorità per risolvere la questione attraverso la rete di aiuti offerti dalla comunità. La ragazza sarà l’unica ad accorgersi che il prezzo da pagare sarà troppo alto.

Diretto in maniera impeccabile da un regista giovanissimo (classe 1991), Tesnota è un viaggio in una delle molte facce della Russia, che non si adagia mai su un’indagine antropologica, tratto comune (purtroppo) a molti dei film presentati in questa sezione. Il rapimento del figlio minore maschio è la svolta drammatica che svela i rapporti di potere in atto all’interno di ogni famiglia, qui il dominio di una madre, vera matriarca, cieca di fronte non solo ai desideri dei propri figli ma anche alle loro possibilità. In questa sparizione dell’erede maschio, risulta evidente quanto nella quotidianità Ilana abbia già assunto il suo posto, seguendo il padre al lavoro e ribellandosi a una madre che la vorrebbe in perenne ascolto della Torah. Ilana indossa sempre una tuta da lavoro che non riesce comunque a nascondere totalmente l’indomita bellezza (che nelle profonde occhiaie ricorda, in versione più verace, Kristen Stewart). Ilana è colei che guarda (e che noi contempliamo nell’atto di osservare gli altri) perché solo così riesce a mantenere la sua integrità di pensiero.

Con la scelta di girare in un formato che esalta i volti e isola i personaggi, Balagov realizza un film quasi privo di movimenti di macchina, trovando nei disvelamenti interni a ogni inquadratura il modo di farci sprofondare gradualmente nella storia. Spietato nell’imprigionarci sotto gli sbuffi di un phon mentre alla protagonista viene imposto un matrimonio, in continuità di fronte al gesto di estrema ribellione della ragazza, fisso di fronte a una liberazione solo apparente. Un film che cresce a ogni sequenza, arrivando a un finale carico di ribellione che implode in una battuta recitata a denti stretti. Ilana non ha bisogno di indossare i panni di suo fratello per sapere di averne preso il ruolo. [Daniela Persico]


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