Los perros di Marcela Said, presentato alla 56e Semaine de la critique, esplora le contraddizioni di un personaggio femminile e della borghesia cilena passata attraverso la dittatura di Pinochet.

Al suo secondo lungometraggio di finzione (ma ne sta già preparando un terzo, El Puma), dopo vari lunghi documentari tra cui uno sull’Opus Dei e uno su Pinochet e dopo il bel L’eté des poissons volants presentato a Cannes alla Quinzaine des réalisateurs nel 2013, la cilena Marcela Said prosegue il suo percorso nella fiction con maggior padronanza di mezzi espressivi e compiutezza di discorso, raggiungendo in Los perros (56e Semaine de la critique) una vera intensità, delineando alla perfezione personaggi e situazioni: due elementi entrambi molto difficili da definire in maniera convincente soprattutto quando si cerca, com’è il suo caso, di mantenere un equilibrio tra sguardo umano e ambiguità delle scelte umane.

Marcela Said deve forse ancora raggiungere pienamente uno stile del tutto personale, come invece è riuscito a Valeska Grisabach con Western, ma l’equilibrio ricercato dalla cineasta si rivela realmente sapiente. Los perros è una coraggiosa penetrazione nei meandri oscuri della borghesia cilena, dei non detti, dei non scritti e in tutto quello che non si vuole leggere o far leggere. Non a caso il film si conclude con una lettera che finalmente esplicita tutto con un’ammissione di colpa che delinea, però, altre colpe. Davvero troppo per la borghesia cilena e forse per la borghesia tout-court che, all’opposto dei proletari e dei paesani del film di Grisabach, è l’oggetto principale d’indagine di Said.

Ancora piccola all’epoca della dittatura, la protagonista del film di nome Mariana si trova confrontata a un passato che s’indovina non ha mai affrontato fino in fondo, specularmente a gran parte del suo paese, dove si vive coabitando con le ombre nere, con i cani neri del titolo, ma si può anche decidere di non affrontare tutto per sopravvivere. La cineasta sceglie di tratteggiare un personaggio ambiguo e insieme umano, nel suo affezionarsi a un ex colonnello sospettato di crimini negli anni di Pinochet. E delineando un personaggio femminile complesso, sfaccettato, che pare al tempo il chiaro riflesso di tante altre donne di quella classe sociale se non di un’intera società, riesce nell’exploit tutt’altro che semplice di far affiorare qualcosa di umano nell’inumano pur rimanendo al tempo stesso credibile.

In questo suo rapporto con l’ex colonnello, che Mariana riesce comunque a ricondurre ad una dimensione morale, affiora una dura riflessione sulla donna e il suo ruolo nella società cilena. Mariana ha sempre seguito i ruoli che il padre e il marito hanno tracciato per lei, e lo scoppio di questa bolla può essere terribilmente doloroso. Il cane nero da cui Mariana si preferisce far accompagnare è quindi proprio il maschilismo insito nella società cilena. E di converso l’atto morale del carnefice la spinge a una scelta che può parere poco umana e morale ma che forse tale non è. Dipende dal punto di vista. Ecco quanto ci sembra dire, tra le altre cose, la cineasta. Il suo sguardo resta umano, non giudica direttamente, rappresenta la coabitazione con le ombre di questo regno dell’oscurità lasciando allo spettatore, e ovviamente alla spettatrice, la libertà di farsi un proprio giudizio analizzando i numerosi elementi disseminati tra i dettagli, le sfumature, gli interstizi di quest’oscurità. Nei suoi anfratti, nei suoi spiragli di luce, si cela infatti la verità della memoria rimossa, della patria natia della cineasta, elemento che ci pare la vera costante della sua cinematografia, sia documentaria che di fiction.

La lettera finale che (in)determina tutto pare quasi una metafora della letteratura o della sceneggiatura cinematografica, del suo potenziale e dell’indecisione che ci può essere su quali strade, quali biforcazioni intraprendere nel chiudere una narrazione a un dato momento: e si torna così di nuovo alla questione, sotto forma di metafora, di uno script come parzialmente imposto dall’alto, dove ci si trova in parte eterodiretti e in parte coscientemente complici di una sorta di perverso determinismo sociale. Al tempo stesso, è appunto metafora delle possibili sceneggiature, delle potenzialità nascoste in uno script o in un romanzo, di quello che – magari per poco – potrebbe essere e non sarà. Siamo noi o non siamo noi a tessere i fili del destino, al contrario di come fa lo scrittore con un personaggio di finzione? In verità permane un dubbio, un’ambiguità, anche su questo aspetto, perché per la protagonista prendere una decisione apparentemente poco morale potrebbe invece rivelarsi morale proprio come reazione al determinismo sociale di stampo maschilista di cui abbiamo detto. Essere lei la scrittrice e non il personaggio che segue (al)la lettera (già scritta).

Per il riferimento all’oscurità, ai cani, a certe tematiche e a certa ambiguità del reale, Los perros ci sembra richiamare la cinematografia del regista cileno vivente più noto, Pablo Larraín, in particolare film straordinari come El Club e Neruda. E la presenza dell’attrice anche di televisione Antonia Zegres, popolarissima in Cile, nel ruolo della protagonista (in cui eccelle, vista la mutevolezza del personaggio) ci sembra costituire proprio una sorta di eco al cinema di Larraín, avendo lei lavorato in opere come El Club, No, Post Mortem. Da notare infine la presenza dell’attore Alfredo Castro, figura dominante in Cile anche a livello teatrale, che ha accompagnato praticamente l’intero percorso di Larraín ma che abbiamo visto anche in Ti guardo, esordio del venezuelano Lorenzo Vigas che si è aggiudicato il Leone d’oro veneziano