A vent’anni di distanza da quel Moe no suzaku che le era valso la Caméra d’or, e dopo aver presentato a Cannes alcune delle pellicole che l’hanno lanciata a livello internazionale, come Mogari No Mori, Naomi Kawase torna in concorso con un titolo che, almeno a giudicare dagli applausi in sala, potrebbe ambire a qualche riconoscimento nel palmares di domenica prossima: Hikari (Vers la lumière). Il film racconta la storia di Misako, giovane giapponese che di mestiere compone descrizioni audio dei film. Durante una di queste proiezioni, la ragazza incontra un famoso fotografo che sta perdendo la vista: il titolo del film di Kawase sta proprio a indicare il sorgere di un sentimento tra un uomo che sta smarrendo la possibilità di cogliere la luce, e una giovane donna che sta cercando la propria.

Hikari conferma il percorso intrapreso dalla regista con il precedente Le ricette della signora Toku. È evidente, infatti, che il successo di quest’ultimo ha spostato la sua attenzione verso un pubblico diverso, da sala più che da festival (e questo, di per sé, può non essere un male). Da qui, dunque, il ricorso a una sorta di racconto poetico, delicato e accessibile, costruito attraverso chiavi metaforiche costantemente esplicitate. In Le ricette della signora Toku erano i ciliegi del film a richiamare quella precarietà delle cose e dell’esistenza che è connaturata da sempre alla poetica di Kawase; qui lo stesso ruolo viene assunto dai tramonti, protagonisti delle tre scene principali del film. Proprio nel sole che scompare all’orizzonte e nella luce che cala progressivamente, vedenti e non vedenti – reali e metaforici – trovano una condizione comune. Il loro diviene un unico sentire, con le percezioni che si assimilano e gli scogli emotivi che divengono ostacoli superabili. La natura, come sempre, non rimane testimone inerte, ma partecipa a questi momenti di deriva esistenziale, anche grazie a una messa in scena che alterna il primissimo piano dei personaggi al dettaglio paesaggistico.

Se questa parte, nel suo sentimentalismo, risulta inquadrabile nel tentativo di drammatizzare e rendere popolare un cinema che nasce come sperimentale, è su un altro versante che l’operazione non convince. Ovvero, nel tentativo di costruire un’impalcatura vagamente teorica sul mélo, portando nella narrazione il cinema stesso – un film che deve essere tradotto a parole, per un pubblico di non vedenti – e mettendo in gioco anche l’immagine fissa – il protagonista maschile, un eccellente Masatoshi Nagase, prima di perdere la vista era un fotografo. È chiara l’intenzione di costruire un discorso sul visibile tutto giocato sul paradosso, a partire da quello che vive la giovane protagonista, chiamata a un lavoro di traduzione quasi impossibile – dalle immagini alle parole – e guidata, in questo, da un gruppo di non vedenti che le danno indicazioni e suggerimenti. Un apprendimento che le insegnerà ad affidarsi ad altre percezioni, tattili, e uditive, sino a quel momento inesplorate. Tuttavia le questioni forse più interessanti, legate al visibile, e al valore e all’utilità delle immagini in un mondo che ha sempre più difficoltà a guardare, vengono ridotte a una mera questione narrativa. La forma non è che grazioso ornamento, in questa ode della luce e della diversità. [Francesca Monti]


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REQUIEM FOR A QUEER DREAM

Già a Cannes nel 2013 con Les rencontres d’après minuit, Yann Gonzalez torna alla Semaine de la Critique con un corto, Les Îles, che anche stavolta ci parla di erotismo, celebrandolo e allo stesso tempo sondandone i limiti.

Se il lungometraggio d’esordio aveva indagato il mistero inquietante dell’eros attraverso le parole o mediandolo con l’allegoria, questo corto si apre invece mostrandoci quello che Les rencontres aveva omesso, ovvero l’amplesso. Due giovani, un uomo efebico e una donna bionda, sono mostrati attraverso una serie di primi piani mentre si osservano e scambiano effusioni. La strettezza dell’inquadratura ricorda il sito di volti ripresi durante l’orgasmo beautifulagony.com, ma la fotografia soffusa da soft-core e le dissolvenze incrociate ci riportano indietro agli anni ’70. Quando il quadro si allarga al totale del rapporto sessuale, passiamo a una messa in scena teatrale: il letto come un palcoscenico, su sfondo nero. L’inquadratura resta frontale anche quando compare in campo un terzo, mostruoso personaggio. Sfigurato e alieno, armato di coltello, viene presto coinvolto dai due nel rapporto sessuale e definitivamente vinto nella sua portata minacciosa. L’amore che vince la morte e la violenza: parte un applauso. La macchina da presa ruota attorno ai personaggi e ci mostra una platea entusiasta, da cui si alza una coppia, che seguiamo al parco. Sono un ragazzo e una ragazza transessuale, che iniziano ad amoreggiare nella notte. Anche il loro amplesso ha un suo pubblico: un gruppo di voyeurs (“i cani da caccia, i lupi”, li chiama la ragazza) esce da dietro gli alberi e si schiera davanti a loro. Tra questi, una giovane donna, vestita con una giacca di pelle rossa, che registra su audiocassetta i loro gemiti. Sembra una riedizione porno e surreale della coreografia del videoclip di Thriller: la ragazza come un nuovo Michael Jackson circondata da licantropi intenti a masturbarsi, come farà poi lei stessa una volta tornata a teatro (forse era lei la regista della pièce iniziale?), ascoltando la registrazione e piangendo.

I riferimenti pop si intrecciano a quelli pittorici (Magritte, i preraffaelliti) o archetipici (la Venere di Willendorf), fino alla fotografia camp di Pierre et Gilles. I corpi sontuosi e quasi sacri sono mostrati attraverso riferimenti teatrali, contemporaneamente recuperando un linguaggio prettamente cinematografico (il 35mm, i mascherini). Un pastiche che è una festa per gli occhi, ma che sa anche coniugare estetizzazione e autoironia mestamente consapevole. L’edonismo che Gonzalez mette in scena è sempre sofferto, ma questa volta, nella distanza che permane tra i tre personaggi protagonisti della seconda parte (la coppia e la “regista”) sembra porre in discussione l’utopia con cui si concludeva (già lì in chiave mélo) il suo film precedente: quella di creare una famiglia tra i partecipanti di un’orgia. Famiglia e desiderio invece, qui appare chiaro, sono destinati a restare opposti. Se la prima unisce, il secondo per definizione crea una frattura, seleziona, esclude. Al massimo, vi si può assistere da fuori: sullo schermo, a teatro, o in un bosco. Allo stesso tempo questo fuori, è parte del dentro: come insegna la psicoanalisi, in camera da letto si è sempre almeno in quattro (la coppia e i suoi fantasmi), e non è un caso se il corto si chiude sulla coppia abbracciata sotto alla statua di una Venere, a testimoniare la presenza sublimata del femminile e in generale i fantasmi che affollano la mente di un giovane regista che si riconferma capace più di altri di riflettere sul queer con sguardo profondo e mai banale. [Elisa Cuter]


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