Se è vero che, spesso, sono i temi d’attualità più sensibili a ispirare l’opera degli artisti, allora non è un caso che negli ultimi anni il cinema italiano si sia profuso in uno sforzo estetico e narrativo, più o meno aderente alla realtà, nel tentativo di restituire per immagini l’epocale portata delle migrazioni. Il pluripremiato Fuocoammare di Gianfranco Rosi rappresenta, da questo punto di vista, solo l’esempio più celebre e di maggiore risonanza fra le recenti produzioni del nostro paese. In questo quadro, Per un figlio è un caso speciale non solo in quanto opera prima e indipendente, ma anche perché lo sguardo portato sullo schermo è quello “interno” di un giovane italiano di origine cingalese, Suranga Deshapriya Katugampala, con tutto il carico di personale e intima prospettiva che comporta; e se, per un verso, ciò espone l’opera al rischio di una trasposizione troppo diaristica, dall’altro permette il tratteggio, asciutto e verace, di un tragitto diretto al cuore del problema, che solo parzialmente coincide con quello dell’immigrazione e dell’integrazione.

Sunita è una donna umile che vive in un paese straniero per necessità. La sua solitudine è rotta unicamente dalle preoccupazioni per il figlio, adolescente turbolento, e dalla cura dell’anziana brontolona di cui è badante e, forse, unico affetto. La struttura del racconto, scarna ed essenziale, e l’intima regia, che sfiora appena le disperanti figure dei protagonisti, lasciano l’intero spazio narrativo alla forza dei silenzi, dei rumori della periferia e dell’atmosfera plumbea di un’anonima cittadina del nord Italia: la fotografia, curata da Channa Deshapriya (Between Two Worlds e Chatrak), cattura con grande suggestione il grigio monocromo dell’aria, delle strade, dei muri, dei visi delle persone e, in qualche modo, è in grado di sopperire alle fragilità del soggetto e della scrittura, favorendo l’immersione sensoriale nell’ambiente inospitale e respingente che pure è, esso stesso, protagonista della storia.

Su questo sfondo asfittico e rallentato, si consumano i piccoli, struggenti drammi di due mondi che non riescono a incontrarsi: quella di Sunita – interpretata da un’eccellente Kaushalya Fernando, una delle più apprezzate attrici dello Sri Lanka – che vive con frustrazione, sacrificio e contrizione la propria vita di immigrata, e che si aggrappa alla lingua e agli ancestrali riti d’origine per non soffocare in un mondo di cui non si sente parte; e quella del figlio che, come capita in ogni relazione familiare nel critico momento di passaggio tra la fanciullezza e l’età adulta, rifiuta tutto ciò che sua madre rappresenta, imita le spacconerie dei coetanei italiani, pervaso da una noia e da uno smarrimento che sembrano un’ombra diffusa sull’intera società, più che rappresentare il malessere della sua condizione di “diverso” in cerca di accettazione. Attraverso questa densa penombra, si muovono i piccoli spiriti del racconto – come l’anziana, abbandonata da un figlio invisibile, che sopravvive solo grazie alla (reciproca) dipendenza da Sunita – immersi in un ripetersi di espressioni di stanchezza, di rifiuto, di parole trattenute.

S’intuisce, lungo questa prolungata sensazione di inadeguatezza, di vuoto, come il film non intenda affrontare soltanto il processo, spesso fallimentare, dell’integrazione (generazionale, culturale, lavorativa, sentimentale). Sembra, piuttosto, trasformarlo in un espediente narrativo per puntare a emozioni più essenziali: la durezza dei rapporti genitoriali e l’incomunicabilità che sovente li segna; i meccanismi di esclusione sociale degli anziani, per lo più considerati come un peso da tenere ai margini; l’alleanza tra donne, per quanto diverse, nel sostenersi vicendevolmente contro l’incapacità degli uomini, perfino dei figli, di comprenderne i sacrifici; il degrado giovanile, che non è già delinquenza, ma mostra i segni di una miserevole inconcludenza e mancanza di prospettive.

In questo quadro desolante, Katugampala sceglie di illuminare il racconto con una sola, fulminea catarsi di tenerezza: il ragazzo, in preda a un misto di senso di colpa e incondizionato amore, piange in silenzio nel misero cucinino di casa, accanto all’esausta madre che dorme su una sedia. E, nel persistente senso di condanna e sospensione, questa piccola pietà concede la speranza di un calore umano che, nonostante il freddo e il silenzio, resiste.