Koreeda Hirokazu è diventato l’ultimo baluardo del cinema giapponese nell’arena internazionale contemporanea. Con l’offuscarsi delle fortune critiche di Kitano Takeshi, gli alti e bassi di Kawase Naomi e l’ineliminabile alterità di Tsukamoto Shinya, sembrava non esserci più un nome in grado di attrarre l’attenzione di platee più vaste. L’ascesa di Koreeda è stata lenta e complicata: se la sua grandezza era chiara fin dai tempi di Moborosi (1995) e After Life (1998), neanche il premio come miglior attore a Yagira Yuya per Nessuno lo sa (2004) al festival di Cannes era riuscito a posizionarlo oltre l’interesse circoscritto di appassionati e nippofili. Il relativo successo di Still Walking (2008) ha accelerato il processo di riconoscibilità di un cinema intimo, meditato, tarato sulla prospettiva di legami umani basilari. Da qui partono variazioni sempre più sottili sugli equilibri familiari, un discorso perseguito in I Wish (2011), Like Father, Like Son (2013), Little Sister (2015). Anche nei film apparentemente più distanti da questo nucleo tematico, come nello storico Hana (2006), ingiustamente messo tra parentesi o dimenticato dalla critica, e in Air Doll (2009), tratto da un manga, a rimanere centrali sono comunque le relazioni minute tra i personaggi, riprese non nel fervore dei grandi accadimenti, ma nello spoglio candore di eventi solo apparentemente poco interessanti.

Ritratto di famiglia con tempesta si inserisce in questo filone di drammi familiari delle piccole cose e si assume quasi la responsabilità di tirarne le fila. Nel seguire i goffi tentativi del quasi cinquantenne Ryota, dopo la morte del padre, per riallacciare i rapporti con la sua famiglia (una madre anziana indipendente, una sorella diffidente, un figlio alienato e una ex disillusa), Koreeda spoglia la storia dei piccoli device narrativi imprevisti utilizzati in precedenza – la separazione in seguito a divorzio di due fratellini in I Wish, lo scambio alla nascita di due bambini alla base di Like Father, Like Son, l’arrivo di una sorellastra mai conosciuta in Little Sister. Qui permane solo l’affanno tragicomico di un uomo che tenta pervicacemente di scendere a patti con il presente, senza farsi dilaniare da passato e futuro. Ryota è infatti un eterno “promettente scrittore”, il cui primo romanzo anni addietro ha vinto un premio critico importante, per quanto secondario, ed è ora bloccato al varco della seconda prova. Rincorso da debiti di gioco, si barcamena in una agenzia privata di investigazioni, giustificandosi che sia solo un espediente per raccogliere materiale pertinente alla scrittura, quando invece tira avanti sostanzialmente ricattando le vittime delle sue “indagini”. A questa costante zavorra di un passato che non c’è più – le possibili glorie da scrittore – si contrappone una spinta verso un futuro ricercato, ma sempre sfuggente. Ryota vorrebbe infatti ricostruire un rapporto con il figlio, diventare un padre nella sostanza e nella quotidianità, ma anche nel forzato momento di unione dell’intera famiglia, a causa di un tifone stagionale, questo sogno deve sempre fare i conti con una realtà radicata – con il presente, appunto, che non può trasformarsi mai, per quanto lo si voglia, né in un passato idealizzato, né in un futuro idilliaco.

Ryota è intrappolato in questo costante patteggiamento con il presente e con la realtà. L’immutabilità della situazione, che alcuni hanno ritenuto un limite narrativo, è in realtà la grande forza di Ritratto di famiglia con tempesta, perché lo sforzo incrollabile di Ryota è quello di ciascuno di noi, persi tra rimorsi e aspirazioni. Questa quotidianità parossistica, capace di instaurare un forte legame empatico con i personaggi, è stemperata grazie a un’ironia sottile, altra costante della scrittura di Koreeda, che costruisce scene affabilmente divertenti a partire da strampalati dialoghi sul nulla e piccoli gesti disimpegnati. In tal senso aiutano gli attori, in particolare il carisma di Abe Hiroshi, che torna a essere figlio di Kiki Kirin, come in Still Walking, in una sorta di dialogo a distanza di tempo. Ma qui Koreeda mostra una nuova consapevolezza, in cui dramma, disperazione e aspirazioni personali si intrecciano e confondono con strategie fallimentari, azzardi rocamboleschi e una disarmante levità. È in questo stile libero di messa in scena che Koreeda si allontana dalle rigidità formali di Ozu Yasujiro, cui pure è stato costantemente ricondotto da una critica limitata, specialmente in Occidente, per trovare una sua dimensione ideale, in cui la materia del cinema non sono più tanto le storie, o i personaggi, ma il riposizionamento delle relazioni. La capacità affabulatoria e visuale di Koreeda ha il respiro e la portata del cinema classico, ma conserva un distacco riflessivo – ironico e stralunato – che lo rende incalzante, sempre scosso da nuovi sommovimenti emotivi: per questo continua a essere un cinema in grado di fotografare con tanto acume il lancinante presente dell’essere umani.