L’uso che Joshua e Ben Safdie fanno di una certa idea decisamente abusata di cinema newyorchese – 16mm, macchina a mano, primi piani ravvicinati, riprese in esterni affollati o degradati, montaggio ellittico, attenzione per dropout e piccoli criminali – cela una consapevolezza che stride volutamente con l’effetto di precarietà trasmesso dalle immagini. Cassavetes non è nemmeno un modello: è un automatismo dell’occhio per chi è cresciuto fra Queen’s e Manhattan; la vita di strada una forma narrativa ed estetica, prima di tutto, e in un secondo momento anche un luogo d’elezione o uno spazio conosciuto. Lo scambio di priorità fra storytelling ed esperienza, evidente soprattutto nei primi lungometraggi The Pleasure of Being Robbed (2008), con il solo Joshua alla regia e Ben al montaggio, e Go Get Some Rosemary (2009, conosciuto anche come Daddy Longlegs), firmato da entrambi, è il segnale più evidente della distanza che separa i fratelli Safdie dai registi e dai film a cui il loro cinema rimanda come un riflesso condizionato: non solo Cassavetes, per l’appunto, o l’altrettanto scontato Scorsese degli esordi, ma anche presenze meno note come Gringo di Lech Kowalski o i primi film dell’israeliano Raphaël Nadjari, The Shade e I Am Josh Polonski’s Brother.

Il realismo di Joshua e Ben Safdie è sporco e respingente come da copione, e proprio per questo il loro sguardo sulla città e sui personaggi sempre consapevole della natura contaminata dello spazio scenico: New York non è un riferimento narrativo e mitico (come in James Gray, per dire), né un semplice palcoscenico, ma il terzo personaggio di una contesa fra film e personaggi, vita e cinema, testimonianza diretta e scrittura.

La cleptomane di The Pleasure of Being Robbed e il padre scapestrato di Go Get Some Rosemary, filmati per strada, scrutati a distanza, sfocati dalla grana sporca della pellicola in 16mm gonfiata in 35mm, separati dall’obiettivo da persone, macchine e cose, sono rappresentati come prigionieri: chiusi dentro una città, dentro un cliché, dentro una storia realistica che poco alla volta allestisce situazioni romanzesche. Non a caso, entrambi i personaggi scappano da New York – lei a Boston, lui nell’Upstate per una gita coi figli – e vi fanno subito ritorno. Consapevolmente, come in una vacanza da sé stessi.

E la sceneggiatura, che finge soltanto di essere improvvisata, di scegliere brandelli di storia e avere una struttura jazz alla Shadows, è in realtà costruita come un percorso a ostacoli. L’incontro dei personaggi con la legge, con il matrimonio, l’autorità scolastica e medica, o il semplice codice stradale (elementi che ritornano all’inizio e alla fine di Good Time), mette alla prova la tenuta dell’individuo di fronte al classico scontro da cinema hollywoodiano con la società. E l’individuo, ovviamente, crolla: la libertà di Eléonore e Lenny è una scenetta, una farsa a cui prestare poca attenzione.

«Look», dice a Eléonore in The Pleasure of Being Robbed un giocatore di pingpong stanco della ragazza e delle sue buffonate al tavolo da gioco, «people here are spending time and energy playing in this tournament, and you’re here doing this stuff». Per l’appunto, «doing this stuff», fare cose: ecco cosa fanno nel loro minuscolo girovagare i personaggi dei fratelli Safdie. Agiscono come semplici figure di scena; non fanno nulla che faccia progredire l’azione; ed è il racconto, non la loro volontà, a generare le situazioni. Eléonore può liberarsi dalle manette e nuotare con un orso polare, e Lenny lottare contro una zanzara gigante come in un racconto fantastico: ma entrambi restano ancorati alla loro dimensione di credibili dropout newyorchesi e al tempo stesso risaputi personaggi di finzione. Non c’è mediazione fra le due dimensioni, quella realista e quella fantastica: c’è una tensione che non genera nulla, se non nervosismo e dispersione di energie.

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Nei film dei fratelli Safdie – e questo vale anche per Heaven Knows What e soprattutto per Good Time – la traiettoria narrativa inscena sempre un depistaggio, è artificiosa e ingannevole anche quando sospesa (spesso in senso letterale: come nel finale sulla funivia di Go Get Some Rosemary o quello sul cornicione di Good Time). The Pleasure of Being Robbed e Go Get Some Rosemary, per dire, sono praticamente lo stesso film: la solitudine di una donna e un uomo che si spostano di continuo per la città, rubando a sé stessi e agli altri tutto ciò di cui hanno bisogno. Eléonore trafuga borse, cibo, soldi; Lenny si prende il tempo dei figli, dell’ex moglie, delle persone che lo aiutano.

Il senso di questi due lavori, la loro spontaneità dentro i limiti autoimposti di un cinema che poggia su spalle altrui, va ricercato negli spazi occupati dai personaggi, negli interni trasformati un po’ alla volta, scena dopo scena, in inattesi luoghi simbolici di intimità. L’appartamento dove Lenny porta i bambini o la macchina che Eléonore ruba e condivide con l’amico Josh sono bolle impermeabili contro la tendenza autodistruttiva dei protagonisti; ancore di salvezza di fronte alla precarietà del quotidiano. Lo zoo di Central Park, ancora, o il Museo di storia naturale di New York (così come il parco giochi in Good Time) diventano antri fiabeschi, scuri e sinistri, opposti all’estremo realismo della messinscena. E proprio perché inattesi, proprio perché finzioni dentro una finzione più grande, tolgono finalmente la maschera ai personaggi e ne svelano un volto sconosciuto.

Non c’è nulla di sbagliato o di storto nelle figure ottuse ed egotiche di The Pleasure of Being Robbed e Go Get Some Rosemary; c’è semplicemente il peso della maschera che opprime e offusca la mente e la vista. Una maschera, ovviamente, che Eléonore e Lenny vogliono smettere di indossare. (E, ancora una volta, tutto ritorna in Good Time, che anche da un punto di vista produttivo segna una ripartenza e una ricognizione per il cinema dei fratelli Safdie).

Fin dagli esordi, Joshua e Ben lottano contro un’idea e un modello di cinema al quale sanno di non poter sfuggire. Il loro cinema non libero racconta solamente storie di liberazione. Volendo essere generosi, nelle loro immagini precarie e frammentate c’è in realtà un rigore quasi bressoniano – una tensione morale ammirevole; volendo essere severi, in tutti i loro film si coglie come l’ombra di uno sguardo compiaciuto, una pigrizia creativa; volendo essere corretti, si deve ammettere che Josh Safdie, classe 1984, e Ben Safdie, classe 1986, di tempo a disposizione ne hanno ancora parecchio e così di occasioni per trovare una strada personale e una voce sicura.