Ceux qui font les révolutions à moitié n’ont fait que se creuser un tombeau (titolo internazionale Those Who Make Revolution Halfway Only Dig Their Own Graves) di Mathieu Denis e Simon Lavoie (2016) rompe fin dal suo incipit con le aspettative comuni del pubblico. Lo spettatore appena sedutosi in sala attende impaziente la prima immagine, ma lo schermo resta buio. A partire è invece il pezzo per orchestra Requiem and Resurrection del compositore americano contemporaneo Alan Hovhaness, e il pubblico è costretto a meditare, prefigurandoselo con la musica, il tragico corso della rivolta che sarà poi rappresentato in immagini. Proprio come Guy Debord aveva disatteso gli appetiti pornografici della sua epoca lasciando lo schermo alternativamente nero o bianco nel film Urla in favore di Sade, anche questo film rifiuta inizialmente di assecondare la pulsione scopica tipica del pubblico nella società dello spettacolo. Da subito appare chiaro, quindi, che i cineasti fanno scientemente riferimento a una tradizione cinematografica specifica: quella del cinema rivoluzionario che prende le mosse da Bertolt Brecht. Didascalie per aumentare l’alienazione, come fecero già Slatan Dudow e Brecht nel loro Kuhle Wampe del 1932, dividono il film in vari capitoli, durante i quali il film dispiega la vicenda di una cellula rivoluzionaria dopo la sua separazione dal movimento di massa. Non solo nel contenuto, ma anche nella forma costantemente citazionistica (di testi letterari, filosofici, fino all’arte e allo stesso cinema), il film è evocativo delle sue influenze. Ricorda fortemente La Cinese (1967) di uno dei più famosi seguaci del cinema di Brecht, vale a dire Jean Luc Godard, così come The Dreamers (2003) di Bertolucci.

Attraverso il montaggio di video amatoriali di immolazioni pubbliche – probabilmente girati durante o subito dopo la rivoluzione tunisina – i registi inseriscono il loro film in un contesto più generale. Dopo la pubblicazione, nel 2007, di L’insurrezione che viene da parte del collettivo Comitato Invisibile, negli anni seguenti l’insurrezione si è effettivamente accesa in varie parti del mondo. Complice l’ultima crisi economica, queste rivolte – dall’Europa al Sud Africa, dagli Stati Uniti al Sud America, dall’Africa del Nord al Medio Oriente – hanno rivendicato giustizia sociale, la fine del regime dell’austerity e nelle sue frange più radicali persino uno smantellamento del capitalismo neoliberale, tanto nella sua forma autoritaria che in quella democratica. Ciò che le ha accomunate tutte, però, è a conti fatti il loro fallimento. In nessuno di questi luoghi si è assistito a una rivoluzione dei rapporti sociali. O, per metterla con le parole del Comitato Imvisibile che riflettono precisamente questo fallimento: “C’è stata la rivolta, ma non la rivoluzione […] Per quanto gravi possano essere i disordini, in questo mondo la rivoluzione sembra sempre soffocare allo stadio del riot. Nel caso migliore, un cambio di regime soddisfa per un attimo il bisogno di cambiare il mondo, solo per rinnovare l’insoddisfazione. In quello peggiore, la rivoluzione diventa il trampolino per coloro che si espongono in suo nome solo per liquidarla nei fatti. […] A questo punto occorre riconoscere che i rivoluzionari sono stati sconfitti.”[i] Questa sconfitta generale delle insurrezioni degli ultimi anni costituisce il punto di partenza del film. È questo scenario di possibilità bloccate e di disastro mondiale ciò che i registi intendono rappresentare con la loro parabola. Uno di loro, Mathieu Denis, ha dichiarato: “Era importante inscrivere questo evento in qualcosa di più ampio perché non si trattava di un momento isolato cronologicamente. […] L’eredità di questi movimenti è sospesa, e siamo lontani dal poter affermare che sia un’influenza positiva. È necessario chiedersi come mai questi movimenti continuino a non ottenere i risultati che si erano prefissati”[ii]. Se il fallimento della rivoluzione può giustamente essere inteso come una delle cause più importanti nella nascita delle nuove destre e nel successo della loro propaganda, occorre però dare uno sguardo più da vicino all’analisi proposta dal film.

Punto concreto di partenza dell’opera è la rivolta studentesca in Québec del 2012, che da protesta contro la proposta di alzare le rette universitarie si evolse in un movimento di massa contro le politiche neoliberali del governo. Il film ci mostra il suo culmine e quindi il suo momento decisivo. Gli atenei sono occupati, la didattica bloccata da uno sciopero generale a tempo indeterminato. Tuttavia, il governo richiede elezioni anticipate, che promettono di sedare la rivolta. Dopo un dibattito infuocato gli studenti decidono di concludere lo sciopero. Delusi dal riflusso del vigore rivoluzionario, quattro studenti rompono con il movimento e si isolano completamente: ponendosi come avanguardia rivoluzionaria prendono in mano l’obiettivo di realizzarla qui e ora. “Il popolo non sa ancora di essere disperato. Noi glielo dimostreremo!” scrivono i quattro in un’azione notturna su un gigantesco cartellone pubblicitario che svetta sull’autostrada. Non saranno più in grado di chiudere l’abisso che hanno creato così tra loro e il popolo di cui parlano. Come in una tragedia classica, il loro destino è segnato da questo oracolo.

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L’isolamento dal movimento conduce i quattro protagonisti direttamente all’isolamento dalla società tout court – un isolamento simboleggiato dalle finestre del loro appartamento, che i quattro oscurano con pannelli di cartone, di modo che niente possa filtrare dall’esterno. Il loro sforzo consiste nell’assoluta (e dunque astratta) negazione della società attuale. Vogliono costruire una nuova umanità a partire da loro stessi, e quindi cambiano i propri nomi borghesi in quelli rivoluzionari di Giustizia, Tumulto, Ordine Nuovo e Klas Batalo (lotta di classe). L’estinzione di ogni forma di conformismo a cui aspirano tuttavia utilizza una dialettica barbarica di sadismo e masochismo all’interno della loro cellula. La violenza esterna della norma e delle relazioni neoliberali è riprodotta all’interno del gruppo sotto forma di un codice morale del nuovo essere umano rigidissima e brutale, con regole e punizioni altrettanto violente in caso di trasgressione. Perciò, Ordine Nuovo si sottrae bruscamente a un approccio sessuale da parte di Giustizia, dicendole “siamo in guerra”: il loro programma non prevede alcuna liberazione sessuale, bensì una rigida desessualizzazione. Infatti i quattro sono sovente nudi all’interno del loro rifugio, e spesso si uniscono quasi a formare un singolo corpo, ma i contatti restano puramente estetici, non arrivano a creare una corporeità libidica condivisa. Le virtù rivoluzionarie sono tristi, ogni forma di debolezza e nostalgia è proibita, così come ogni rinnovato approccio al mondo reale, divieto rafforzato da tribunali nei quali un’inflessibile autocritica funge da espiazione della propria colpa. Per restare nel gruppo è necessaria una rigorosa abiura, un’autentica e materiale espulsione del retaggio borghese dal nuovo sé. Tutto quanto rimane dei vecchi sentimenti, aspirazioni e pensieri, tutto quello che in qualche modo ancora lega alla vecchia società deve essere sacrificato senza concessioni all’altare della purezza rivoluzionaria.

I quattro ereditano il loro idealismo rivoluzionario proprio dall’eponimo del film: Saint-Just. Il loro imperativo radicale e totalizzante è suo: “Quel che fonda una Repubblica è la totale distruzione di tutto quel che ad essa si oppone”[iii]. Così, la loro nuova comunità è basata esclusivamente sulla negazione assoluta e formale del suo opposto, con l’effetto di risultare totalmente vuota. Incapaci di modificare  le condizioni materiali delle relazioni sociali i quattro tentano – proprio come Saint-Just e i suoi adepti – di compensare l’impotenza della virtù morale rispetto alle costrizioni e iniquità materiali con il suo complemento necessario: il terrore. La dimostrazione di questa dinamica è la parte più forte del film, che illustra magistralmente le conseguenze di una moralizzazione astratta che resta sconnessa dalle condizioni sociali concrete e perciò tende inevitabilmente e naturalmente a rafforzarsi grazie al terrorismo. In ciò il film è decisamente attuale, parla di una certa abitudine mai persa da parte della sinistra ad assurgere ad autorità morale e della sua “presunta abilità di decretare il modo corretto di vivere”[iv] che, infestandola, la rende incapace di agire. Più in generale, la moralizzazione dei problemi è il contrario di una loro possibile risoluzione politica, che li consideri cioè come conflitti, e perciò riduce all’impotenza ogni movimento.

Ma i quattro non sanno reagire a questa rigidità del totalmente nuovo e ai suoi imperativi – del resto chi potrebbe farlo? La negazione assoluta dell’ordine vigente, e il totalmente nuovo non sono nemmeno immaginabili. Quando un cliente di Klas, transgender che si prostituisce per guadagnare dei soldi per il gruppo, inizia a citare un libro di Rosa Luxemburg, che Klas legge costantemente, quest’ultima ha un crollo. Le parole toccanti della vecchia rivoluzionaria, che inneggiava alla gioia da contrapporre alla mestizia e alla miseria e che si sentiva a casa là dove vi sono uccelli, nuvole e lacrime umane, ricordano troppo dolorosamente a Klas tutto ciò che le manca e di cui avrebbe bisogno. Perché le prime cose a morire a causa dell’illusione di purezza morale della cellula sono lo humor e l’amore, che, come dice Adorno, può esistere solo “dove puoi dimostrarti debole senza provocare in risposta la forza”[v]. Anche le loro azioni non possono legarsi a questi elementi, che sono gli elementi da cui potrebbe scaturire la rivoluzione. Ottengono quindi un carattere terroristico, che inizia orinando sulla vetrina di una ristorante per parvenu e finisce in un attacco con bombe molotov allo stesso, che provoca la morte di una famiglia che abitava al piano di sopra.

Il fallimento della rivoluzione diventa evidente nell’incapacità del gruppo di formare autonomamente qualcosa di nuovo. Le loro azioni e il loro pensiero non conducono ad altro che a un re-enactment, una ripetizione. I loro attacchi terroristici impallidiscono al confronto di quelli passati, e la resistenza deviante di Ordine contro la legge sembra una mera ripresa di Fritz Teufel, uno dei fondatori di Kommune 1, che sfociò più avanti nella RAF (Rote Armee Fraktion) e nel Movimento 2 Giugno, che alla richiesta di un giudice di alzarsi in piedi rispose stando seduto “solo se necessario all’istituzione della verità”. Come già detto, i quattro citano letteralmente una serie di autori militanti, da Rosa Luxemburg a Albert Camus, fino a Aimé Césaire, ma nessun manifesto, come osserva Tumulto, come pure nessun pamphlet o comunicato viene mai scritto. Anche se i quattro scrivono i testi citati sui loro corpi, lo spirito rivoluzionario non penetra nel loro sangue o nella loro carne – la loro rivoluzione resta preoccupantemente astratta, priva di sostanza. Alla fine, quando le loro azioni rivelano di non produrre alcun effetto visibile, non sanno più cosa fare. In questa impasse, quella che sembrava la figura più militante tra i quattro, Ordine, si dà fuoco di fronte alla finestra di casa, dietro alla quale sua madre continua impassibile a guardare la televisione. Persino quest’ultimo, disperato tentativo di guadagnare il riconoscimento dell’autorità (genitoriale) è destinato allo scacco.

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Ma questo è anche il punto in cui il film perde la sua scommessa di illustrare sul piano estetico una parabola generale, tramutandosi involontariamente da una rappresentazione del fallimento della rivoluzione in una rappresentazione del fallimento della sua rappresentazione cinematografica. Anche se è vero che il dibattito interno alla sinistra sembra essersi appiattito sulla moralizzazione e che forme tradizionali e obsolete di rivoluzione vengono vuotamente ripetute, le insurrezioni degli scorsi anni, inclusa quella in Québec, non ha fallito a causa di un immaginario impoverito, dell’autoconsunzione o del suo solipsismo morale astratto, bensì a causa della reazione repressiva che l’ha contrastato e di una norma neoliberale apparentemente inscalfibile. Proprio come le immolazioni e le insurrezioni in Tunisia non erano legate a un’assenza di riconoscimento da parte dei genitori, bensì a una manifesta e diffusa povertà, all’ingiustizia sociale, alla brutalità della polizia e all’assenza di partecipazione democratica e di libertà. Così il film va incontro allo stesso destino dei suoi protagonisti: diventa una farsa della tragedia rappresentata dal passato rivoluzionario. Proprio come i suoi protagonisti, il film è incapace di ideare un nuovo linguaggio a partire dal conglomerato informe di citazioni di movimenti cinematografici rivoluzionari. A differenza del loro dichiarato nume tutelare Godard, i registi non riescono a stargli dietro nel duro lavoro di traduzione dei concetti in immagine. Ne La cinese, Godard riesce infatti a tradurre i concetti astratti del marxismo rivoluzionario in gesti elementari e immagini senza ridurre questi a mera illustrazione, né i concetti a semplici slogan banalmente rappresentabili. Il film di Denis e Lavoie tiene invece testi e immagini rigidamente separati, senza metterli in un rapporto dialettico di tensione in cui i gesti corporei trasformano i concetti in immagini intelligibili portandoli in evidenza e rendendoli interpretabili[vi].

Ancora peggio: riducendo le ragioni dell’insurrezione ai problemi narcisistici di alcuni studenti d’arte (piccolo-)borghesi, ottiene il risultato di delegittimarla in toto. Come il movimento rivoluzionario del ’68 e la conseguente costituzione di cellule rivoluzionarie di ogni sorta, pur con tutte le loro contraddizioni, hanno ottenuto una legittimazione storica, così l’hanno avuta quei film che hanno rappresentato questo processo rivoluzionando il linguaggio cinematografico. Ma anche le insurrezioni contemporanee trovano una legittimazione nella generale disumanità, ingiustizia e violenza dell’ordine mondiale neoliberale, e nella loro ricerca di una nuova forma di comunità – e meritano per questo il diritto di essere adeguatamente rappresentate. Che rappresentare adeguatamente la necessità di rivoluzione e le disastrose conseguenze del suo fallimento sia possibile lo dimostrano molte opere recenti, da Il tocco del peccato (2013) di Jia Zhangke a A Syrian Love Story (2015) di Sean McAllister. Il vantaggio di questi film è anche che pongono la domanda più urgente ma anche più complicata: ovvero quella di come organizzarsi in un modo che rompa con il generalizzato individualismo e che sia non solo capace di interrompere l’ascesa globale di movimenti autoritari e fascisti, ma anche di sconfiggere la loro radice capitalista. E questi movimenti fascisti non smetteranno di crescere fino a che le insurrezioni non smetteranno di fallire.

(Testo inedito originariamente in inglese, traduzione di Elisa Cuter)


NOTE

[i]The invisible Committee, To our Friends, trad. dal francese di R. Hurley (Paris: ill-will-editions, 2014), https://illwilleditions.noblogs.org/files/2017/02/Invisible-Committee-To-Our-Friends-IWE-US-LETTER-REVISED-COVER.pdf, p. 10f.  (traduzione propria)

[ii]Citato in Valérie Thérien, “Ceux qui font les révolutions à moitié n’ont fait que se creuser un tombeau: Brassez-nous, pour l’amour du cinéma,” Voir, March 2, 2017, https://voir.ca/cinema/2017/02/02/ceux-qui-font-les-revolutions-a-moitie-nont-fait-que-se-creuser-un-tombeau-brassez-nous-pour-lamour-du-cinema/ (traduzione propria)

[iii]Louis Antoine de Saint-Just, Œuvres complètes (Paris: Gallimard, 2004), p. 659 (traduzione propria)

[iv]The Invisible Committee, op. cit., p. 11. (traduzione propria)

[v]T.W. Adorno, Minima moralia, (Torino: Einaudi, 1983), p. 230.

[vi]cf. Jacques Rancière, “The Red of La Chinoise: Godard’s Politics,” in Film Fables, trad. E. Battista (Oxford: Berg, 2006), vedi anche: http://www.diagonalthoughts.com/?p=1610.