In un momento storico e culturale nel quale si può affermare impunemente che “le serie tv hanno sostituito il cinema” (inteso sia in senso strettamente classico che come luogo d’aggregazione), il cinema dei fratelli Safdie si offre come una contraddizione interessante. Premesso che il “cinema americano” è da sempre un aggregato composito ed eterogeneo, stratificatosi per successive complessificazioni, e quindi anche il panorama della serialità degli ultimi anni andrebbe ricontestualizzato in quel continuo accadere che è “il cinema americano” (o meglio: “statunitense”), si dovrebbe (come correttamente suggeriva Luca Guadagnino nel corso di una conversazione) tornare a distinguere fra scrittura, intesa come esecuzione di una sceneggiatura, e cinema, come racconto per immagini [e] delle immagini.

In questo senso i Safdie si offrono come una fertilissima contraddizione. Nel senso che il loro cinema sembra come saltare l’impasse del presente di un cinema americano nel quale, provocatoriamente, potremmo dire che gli unici cineasti autenticamente sperimentali rispondono al nome di Michael Bay, Joss Whedon, lo Scott Derrickson di Dr. Strange e – a tratti – i fratelli Russo (mentre la tradizione della commedia insurrezionale oggi resta praticata essenzialmente dal clan di Will Ferrell, basti pensare all’imprendibile Casa de mi padre che, in tempi di muri messicani, è stato politicamente il film più lungimirante degli ultimi anni…).

Questo per dire, dopo avere accennato per sommissimi capi alla situazione del cinema statunitense corrente, che i fratelli Safdie sembrano essere assolutamente alieni a tutte le principali traiettorie narrative e formali di quello che si ritiene essere il racconto “americano” contemporaneo. Non a caso la maggior parte delle reazioni a caldo dei festivalieri cannensi rispetto al loro Good Time è stata di accennata sufficienza se non addirittura fastidio. Tutti pronti a liquidare come “già vista” l’odissea notturna di Robert Pattinson in una New York che, come per un sortilegio paramnestico, sembra essere ritornata ai suoi fasti pre-gentrificazione e pre-Giuliani della fine degli anni Settanta (l’unico altro film a riuscire in un’impresa di questo tipo è il sorprendente Menashe di Joshua Winstein, 2017).

Lavorando in una simbiosi straordinaria con l’eccellente Sean Price Wiilliams (probabilmente il direttore della fotografia più interessante del momento) – i primi passi al fianco di Robert Greene (Fake It So Real, Actress), poi Listen Up Phillip, Queen of Earth e Golden Exits di Alex Ross Perry; uno che considera Abel Ferrara “the patron saint of New York’s independent filmmakers” – i Safdie riescono nell’impresa di realizzare un film “americano” che miracolosamente veicola un’idea del luogo nel quale è calato. Un film americano che non potrebbe essere che realizzato a New York nelle condizioni esatte in cui è stato portato a termine. Un film in grado di rispondere politicamente alle condizioni ambientali ed economiche che lo hanno determinato. Ed è proprio questa consustanzialità organica – resa perfettamente dalla grana dell’immagine di Sean Price Williams – a dire della necessità di un film che, pur aderendo alle regole del non-genere lumettiano e/o schatzberghiano, riesce a imporsi come singolare rispetto a una tradizione testuale ampia e codificata. Il film, infatti, nel suo muoversi instancabile sventa il rischio della mera esecuzione della sceneggiatura, tracciando così un percorso tattile nella città che diventa riflesso del processo stesso di realizzazione del film. Non è un caso, infatti, che anche i cosiddetti momenti forti dello script (lo scambio nell’ospedale, il luna park) siano messi in scena con una “matter-of-factness” davvero esemplare. Il dato materiale della scena non è mai rielaborato in chiave allegorica o metaforica. Tutto resta al livello della pura sensorialità o di ciò che questa significa nella evoluzione del racconto e del personaggio.

I Safdie, insomma, rispondono con grande precisione e convinzione agli imperativi del racconto cosiddetto classico riuscendo contemporaneamente a evidenziarne le linee di frattura. In questo senso, la connotazione di classe del racconto fornisce al film la sua prospettiva. La New York del film è la città vissuta e percepita da un disoccupato e di conseguenza l’architettura e il reticolo delle strade diventano un corpo estraneo dal quale liberarsi per potersi muovere meglio e più velocemente. A differenza di Mann (che nulla c’entra ma che pure era evocato nei commenti più superficiali), non c’è nei Safdie adesione al genere (per quanto macroscopico) né tantomeno un’esplorazione della forma e del dispositivo. Quello dei Safdie, allo stato attuale delle cose, ci sembra un lavoro primario, inteso come immersione in luoghi e corpi, con una fortissima componente “documentaria” (come potevano averla certi noir noir di Dassin e Hathaway, per dire…).

L’urgenza di un film come Good Time, senza volere emettere giudizi frettolosi, ci dice se non altro della instancabile capacità rigenerativa del cinema americano in un momento nel quale tende a reinventarsi in forme e formati non sempre evidenti. I Safdie, invece, con un guizzo visionario, riprendono in mano il filo di un racconto interrotto, nella piena consapevolezza che indietro non si torna mai. Ed è proprio tale consapevolezza – alle spalle c’è solo terra bruciata – a fare la forza del loro cinema completamente a-nostalgico e totalmente calato nel presente indicativo del discorso attuale.