Al culmine del suo successo, ciascuna major – e anche alcune minor – possedeva nei propri studi dei backlot, aree all’aperto in cui allestire i set. Molto spesso in queste aree, che includevano ettari di terreno usati per esempio nei western o per filmare scene campestri, venivano costruite vere e proprie piccole cittadine del diciannovesimo secolo, e set semi-permanenti per i western. Gli studios più grandi avevano ricostruzioni di strade urbane che potevano utilizzare se il film che dovevano girare era ambientato nelle strade di New York, di Chicago o di Boston. Dato che si giravano moltissimi film, questi set permanenti riducevano i costi che altrimenti si sarebbero dovuti sostenere per rifare da zero i set per ciascun film. Alcuni studios avevano perfino delle piscine, come quella della MGM – utilizzata in Scandalo a Filadelfia e poi per i numerosi film con Esther Williams. La MGM aveva anche i suoi elaboratissimi “set di sale da ballo”, con un’inconfondibile pavimentazione. Quest’ultima è stata utilizzata in tantissimi film MGM nel corso del tempo, indipendentemente da chi fosse il regista, soprattutto in film in costume in cui bisognava ricreare per esempio la corte di un re, un hotel di lusso, una villa costosa, un castello, etc… Forse non ci avete mai fatto caso, ma anche solo a livello inconscio potreste averlo notato. O ve ne siete accorti ma magari poi lo avete dimenticato. È lì, film dopo film, e naturalmente una volta che iniziate ad accorgervi di questa o di altre ricorrenze simili non potete più fare a meno di farci caso.

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Immagini da I tre moschettieri (1948), MGM

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Il grande peccatore (1949), MGM

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Il covo dei contrabbandieri (1955), MGM

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I quattro cavalieri dell’Apocalisse (1962), MGM. Si noti il pavimento a sinistra dell’immagine

Ci piace definire gli studi hollywoodiani “fabbriche di sogni”, ma solo parte di questa definizione corrisponde a verità. La parte relativa ai “sogni” può essere messa in discussione, ma di fabbriche senza dubbio si tratta. Tutto ciò che veniva usato una volta si poteva verosimilmente riutilizzare. E in alcuni casi lo si riutilizzava in modi più stravaganti o fantasiosi di quelli originari. Per esempio, sempre la MGM aveva ricostruito per il film di Albert Lewin Il ritratto di Dorian Gray (1944) le strade della Londra dell’Ottocento e, anche se alla fine nel film le si vede poco, si intuisce dai fotogrammi di una scena tagliata che il set era molto più grande di quanto non sembri dal film finito. Questo stesso set è stato sfruttato in maniera decisamente più efficace nello spettacolare numero musicale “Limehouse Blues” di Minnelli in Ziegfeld Follies (1946). La domanda da porsi a questo punto – per lo meno per coloro che trovano interessanti questi approcci pragmatici, marxisti alla storia del cinema – è: “Limehouse Blues” è un numero musicale concepito a partire da un set esistente perché era stato il set a “ispirarlo”, oppure a Minnelli era stato esplicitamente chiesto di trovare un modo di sfruttare di nuovo un set che chiaramente era costato molto?

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Fotogrammi tratti da Il ritratto di Dorian Gray, MGM

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Fotogramma da Il ritratto di Dorian Gray, non inserito nel film finito.

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Quattro fotogrammi da Ziegfeld Follies, MGM

Non dovrebbe sorprendere il fatto che l’uso di quello spazio da parte di Minnelli sia molto più consapevole, tridimensionale e cinematografico di quanto non lo sia quello di Lewin.

Quello dell’industria cinematografica è sempre stato un business come un altro, perfino più di altri. Ogni dollaro speso contava e bisognava che si vedesse sullo schermo. O, per dirla in modo più diretto, per risparmiare vigeva la regola di sfruttare al massimo ogni trave, ogni asse, ogni telo degli allestimenti negli studi. I set o parte di essi venivano riciclati, con i film di budget più ridotto che beneficiavano degli “avanzi” delle maggiori produzioni, anche se perfino le grandi produzioni cannibalizzavano set e parti di set di altri film: elementi architettonici, lampadari, candelabri da parete, sezioni di scalinate, ingressi, etc… Pensate a quest’altro esempio: Scaramouche, di George Sidney, è uscito nelle sale statunitensi nel maggio del 1952; Il bruto e la bella, di Minnelli, è stato girato tra l’aprile e il giugno del 1952, per essere distribuito nel dicembre dello stesso anno. Parte dell’elaboratissimo set usato in Scaramouche per la scena del duello a teatro – un palchetto – è riutilizzato en passant nel film di Minnelli: la sua presenza è tutt’altro che necessaria per la brevissima (venti secondi, un’unica inquadratura) scena di Il bruto e la bella in cui Kirk Douglas fa le prove con Lana Turner, e tuttavia la rende visivamente più ricca.

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Scaramouche, MGM; Il bruto e la bella, MGM

Quel set, evidentemente messo “in naftalina” per essere ripreso successivamente, fa di nuovo un’apparizione dieci anni dopo in un altro film di Minnelli, Due settimane in un’altra città, con l’aggiunta di ulteriori palchetti. Questa volta, Kirk Douglas fa le prove con Rosanna Schiaffino. Anche la scala è la stessa?

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Due settimane in un’altra città (1962), MGM

E in Il bruto e la bella, in quello che si presume essere uno spoglio teatro di posa, Minnelli allude visivamente ai pavimenti lussuosi della MGM, una costante nei loro film in costume.

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Il bruto e la bella, MGM

A volte, un set è così d’impatto e ti colpisce a tal punto da non riuscire a dimenticarlo. Per esempio, quello della scena del tribunale alla fine di Femmina folle (1945) è messo in tale risalto che l’ho immediatamente riconosciuto, facendo zapping, nel film della 20th Century Fox Il cigno nero, girato tre anni prima, in cui funge di nuovo da aula di tribunale – con la differenza che fuori dalle finestre circolari, che attirano l’attenzione, qui si vedono delle palme. Incidentalmente (o forse no) l’operatore in entrambi i film era Leon Shamroy. (Si noti anche che in entrambi i set la parete posteriore, quella con le finestre, è curva).

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Femmina folleIl cigno nero

Se nei ristoranti cinesi tutte le parti del pollo o del maiale vengono utilizzate, lo stesso vale per gli studios e i loro props. Ogni casa di produzione ha un magazzino in cui conservare i props e gli elementi d’arredo di sua proprietà. Possiamo immaginare che questi magazzini siano grandi, pieni di cianfrusaglie e perfino di qualche tesoro perduto, almeno quanto quelli che si vedono alla fine di Quarto potere e in cui Charles Foster Kane conservava i trofei frutto della sua smania di possesso.

C’è anche una scena in Il bruto e la bella in cui Kirk Douglas porta Dick Powell e Gloria Grahame a fare un giro in uno di questi magazzini; qui Grahame vede il perfetto tavolo da pranzo, completo perfino – per quanto possa sembrare improbabile – di sedie e già apparecchiato con posate d’argento, porcellane e centrotavola floreale, pronto per una scena dell’adattamento del romanzo di Powell che verrà girato di lì a poco. Poco più tardi, infatti, quando viene girata la scena in questione il tavolo è apparecchiato esattamente come avevamo visto.

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Il bruto e la bella – prima e dopo

È divertente immaginarsi le case di produzione dissolute nello spendere come i sultani de Le mille e una notte, ma è assurdo pensare che per ogni film si acquistassero o costruissero nuovi props, o che i set fossero decorati senza fare ricorso alla miriade di oggetti già di proprietà degli studios. E perché avrebbero dovuto farlo, del resto? Buona parte dei props è quasi invisibile per lo spettatore. Servono a rendere credibile un ambiente, in modo tale che non sembri vuoto, ma abitato. Inoltre, filmati da angolazioni diverse, con lenti diverse, illuminazione diversa e inseriti in un ambiente diverso i props si rendono irriconoscibili. Si confondono di volta in volta con il nuovo contesto perché la percezione che abbiamo di essi è diversa rispetto alla loro precedente “incarnazione”. Non ci si aspetta che lo spettatore esamini a fondo, nell’inquadratura, ogni crepa, ogni divano, sedia o tavolo, o che osservi i motivi o il tessuto di ogni tenda. Il compito dello spettatore – assumendo che ne abbia uno, a parte godersi il film – è pagare il biglietto e dopo, si spera, prestare attenzione alla storia e agli attori. Il pubblico non dovrebbe preoccuparsi di quella sorta di paesaggio in continuo mutamento rappresentato dai dettagli sullo sfondo. Quello è compito dello scenografo. Gli art director, i direttori di set o gli attrezzisti probabilmente ricordano molto bene quei tesori custoditi nei magazzini. Il loro lavoro consiste nell’allestire set stando nel budget, o anche al di sotto del budget, ma facendoli sembrare il più costosi possibile. Perciò risparmiare e riusare in modo creativo gli oggetti è parte del lavoro.

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Il bruto e la bella: Kirk Douglas (a sinistra) e Barry Sullivan (al centro) “provano” le scalinate custodite nei magazzini

Tuttavia, ci sono spettatori che, come cani da caccia, perlustrano con lo sguardo ogni angolo dell’inquadratura, soprattutto quando stanno guardando un film che conoscono bene, o diretto da un regista che amano molto, o che hanno visto una miriade di volte. A volte, certe connessioni vengono notate per caso. Ti accorgi di una lampada da tavolo e… “non ho visto una lampada come quella in un altro film? Credo di sì, ma non ricordo il titolo”. E poi accendi la TV ed eccola, in quell’altro film.

Altre volte certe connessioni si fanno per ragioni personali. Uno guarda un film e non riesce, per un motivo o per un altro, a dimenticare un oggetto, un artefatto, un aggeggio. E poi lo vede in un altro film, girato ovviamente dalla stessa casa di produzione, nella stessa annata. Infine, a volte sono gli oggetti stessi che attirano l’attenzione – o per la loro eccentricità o perché fanno la loro comparsa sullo schermo in modi singolari.

Quando gli studios, negli anni ’40 o ’50, giravano i film, questi ultimi erano concepiti come beni “usa e getta”. Non ci si aspettava che il pubblico li vedesse più di una volta, o che ricordasse certi dettagli dei film negli anni a venire. A riprova di ciò, quasi tutte le copie dei film venivano distrutte dopo che erano state proiettate in tutti i possibili cinema, al fine di recuperare il prezioso nitrato d’argento usato per l’emulsione. Le case di produzione divennero consapevoli dei benefici economici dell’ecologia e di certe forme di riciclo perfino prima di altri. Di certo, non si immaginavano che ci sarebbe stata una categoria di spettatori, a volte chiamati cinefili (e a volte chiamati con epiteti peggiori), che avrebbe guardato uno stesso film più e più volte. Né si sarebbero mai sognati che la TV avrebbe accostato in maniera del tutto casuale film di una stessa casa di produzione in modo tale che gli spettatori, anche dopo diversi decenni, potessero vedere fra i film delle connessioni che erano invisibili per l’audience del tempo. Infine, nessuno avrebbe potuto immaginare che invenzioni come il videoregistratore e il lettore DVD avrebbero reso i film disponibili in modi impensabili prima – anche se alcuni cinefili in effetti potrebbero aver sognato confusamente, senza riuscire a descriverli, questi dispositivi prima che venissero inventati. La capacità, per chi scrive di cinema, di mettere a confronto, giustapporre o anche solo descrivere dettagliatamente alcuni aspetti specifici dei film si è sempre scontrata con ricordi imprecisi, “difettosi”. In questo senso, il videoregistratore e il lettore DVD sono degli strumenti essenziali per lo studio e l’analisi dei film, ma anche semplicemente per goderseli meglio.

Per quanto mi riguarda, ho una memoria abbastanza buona, ma non ho memoria fotografica. La disponibilità dei film in DVD mi permette di fare connessioni a cui non avevo mai pensato. Similmente, avere accesso alle videocassette mi aveva dato l’idea di fare dei film in cui scene tratte da opere diverse – e che naturalmente non erano state concepite per essere accostate l’una all’altra – potevano essere giustapposte e combinate fra loro in modi nuovi. A un certo punto, ho iniziato a fare un film antologico sulla rappresentazione dell’arte e degli artisti nei film hollywoodiani. Il titolo doveva essere Art is Just a Guy’s Name, dalla risposta che Rock Hudson dà a Otto Kruger in Magnifica ossessione, quando questi gli chiede se si interessi di arte: “Per quanto ne so, Art (arte) è solo il nome di un tizio”. Nel film volevo includere alcune delle mie frasi sull’arte preferite: come quella da Un grande amore e dal suo remake, Un amore splendido, entrambi di Leo McCarey, la battuta più assurda di sempre – Deborah Kerr, paralizzata, dice a Cary Grant, che sogna di diventare un pittore, “se tu puoi dipingere, io posso camminare”, pronunciando quelle parole senza la benché minima traccia di ironia. (Quando Irene Dunne dice la stessa frase a Charles Boyer nella versione del 1939, lui sussulta, incerto sul reale significato di quel commento). Un’altra delle mie preferite è pronunciata da Joan Bennett in La strada scarlatta, di Lang. Agitando le dita dei piedi di fronte a Edward G. Robinson dice: “Sei un pittore. Dipingile!”. E poi aggiunge malignamente, con la sua inimitabile parlata strascicata, contemporaneamente sarcastica e annoiata: “Saranno un capolavoro”.

Scrivo di questo film, che ho parzialmente montato e di fatto mai finito, perché in esso avevo inserito delle scene da Il grattacielo tragico (1946) – un noir interessantissimo e quasi completamente dimenticato di Henry Hathaway – in cui Clifton Webb fa la parte del mercante di opere d’arte. A differenza della maggior parte dei veri mercanti d’arte, che preferiscono specializzarsi in aree specifiche della produzione artistica, il personaggio di Webb ha una galleria enorme, piena di innumerevoli sculture e dipinti (tutti props della 20th Century Fox, senza dubbio) appartenenti a periodi diversi – incluso un Vermeer, un fintissimo Raffaello, e tonnellate di porcellane cinesi. Una scultura ha attirato la mia attenzione: quando torni più e più volte sulle stesse scene in fase di montaggio, e vedi quindi le stesse immagini innumerevoli volte, sviluppi una familiarità con il materiale che normalmente non avresti. E quegli oggetti che sono stati piazzati in scena solo per riempire uno spazio vuoto iniziando ad assumere una rilevanza che prescinde dalle intenzioni originarie. Una delle sculture che affolla la galleria di Webb l’ho riconosciuta successivamente in un’immagine promozionale – un altro modo di usare i props – scattata da George Hurrell nel 1944 a Gene Tierney, star della Fox. Quella stessa scultura appare quasi di sfuggita – una delle tante opere d’arte in un appartamento ben arredato – in una carrellata del film di Julien Duvivier Destino (1942), sempre della Fox, un film a episodi che ruota intorno alla sorte di una giacca da smoking che passa di mano in mano, da un episodio pieno di star al successivo.

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Il grattacielo tragico, 20th Century Fox

18Foto pubblicitaria di Gene Tierney scattata da George Hurrell nel 1944, Destino, 20th Century Fox; Tales From manhattan (1942) 20th Century Fox

Questa statua fa parte di un dittico, e anche il nudo maschile della coppia si intravede per qualche istante in Il grattacielo tragico, nella galleria.

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Diversi anni dopo viene promosso a “protagonista” e possiamo vederlo decisamente meglio, e in Cinemascope – per quanto anche qui per poco tempo – quando funge da elemento di arredo per la terrazza dell’appartamento di Come sposare un milionario (1953).

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Come sposare un milionario, 20th Century Fox; dettaglio de Il grattacielo tragico

Dedicarsi a uno studio sistematico ed esaustivo di questo argomento – la ricorrenza di parti di set in diversi film, il riuso dei props da parte degli studios – non solo potrebbe sembrare un segnale di pazzia, ma molto probabilmente condurrebbe, anche, alla pazzia. Si potrebbe, sì, guardare con attenzione tutti i film in costume disponibili (“disponibili”, direi, è la parola chiave) girati dalla 20th Century Fox in una manciata di anni, oppure quelli della MGM in cerca di parti di set, divani, caminetti e mensole, porte, cornici di finestre, lampade, etc… Ma a quale scopo? In fin dei conti sappiamo già che quella del riciclo di vari elementi della produzione, con l’eccezione degli script, era una pratica comune. Ma a volte alcune delle scelte fatte in questa direzione sono sorprendenti. Conosciamo tutti il ritratto di Gene Tierney, “Laura”, nel film omonimo di Otto Preminger (Vertigine, 1944). All’inizio Preminger aveva chiesto a un artista di dipingere un ritratto della star, ma non era soddisfatto del risultato. Pertanto, le chiese di posare per un ritratto fotografico, e poi fece ritoccare la fotografia per farla sembrare un dipinto. E qualche art director o scenografo pieno di risorse, mentre giravano Divertiamoci stanotte (1951), sempre con la Tierney, ricordandosi di Vertigine ha deciso di utilizzare quello stesso ritratto per arredare la villa in cui la protagonista vive con il marito (uno dei due personaggi interpretati da Danny Kaye). Siamo così abituati a vedere quel quadro in bianco e nero che è quasi uno shock rivederlo a colori, e in questa versione sembra perfino un po’ pacchiano.

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Vertigine, 20th Century Fox; Divertiamoci stanotte, 20th Century Fox

E pare che la stessa fotografia di Gene Tierney sia stata usata anche nel film di Negulesco Il mondo è delle donne (1954), come parte della “collezione” di Clifton Webb di ritratti fotografici delle sue conquiste: chiaramente di nuovo una sorta di inside joke per gli spettatori più attenti – e per il reparto scenografia della 20th Century Fox. Si può certo dire, quindi, che si è trattato, per questo oggetto di scena, di soldi ben spesi.

Tornando a Divertiamoci stanotte e Il grattacielo tragico, c’è uno strano e piuttosto inelegante oggetto di scena che si vede per qualche istante nel palazzo di Clifton Webb in quest’ultimo film, nascosto in cima alla scalinata.

Cinque anni dopo, quel qualunque-cosa-sia, ridipinto con dei dettagli dorati, riappare in Divertiamoci stanotte a separare i due Danny Kaye l’uno dall’altro. Non sapremo mai quante altre “comparsate” quell’oggetto ha fatto negli anni che dividono un film dall’altro. Tuttavia, ho rivisto per caso I sette ladri, di Henry Hathaway (1960), sempre della 20th Century Fox. Indovinate cosa si intravede sullo sfondo del casinò di Monte Carlo, luogo in cui si compie la grande rapina nel film? Di nuovo quell’affare, e il suo gemello altrettanto brutto.

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I sette ladri, 20th Century Fox

Chiunque sia interessato a rintracciare candelabri e candelieri a muro de I sette ladri in altri film deve cavarsela da solo. Per quanto riguarda i colonnati, suggerirei di iniziare con i film della Fox La tunica (1953) e I gladiatori (1954).

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Due fotogrammi de I gladiatori. Con un paio di strati di pittura, il colonnato in questo film può essere riusato per I sette ladri.

Di recente, ho rivisto il sottovalutato Operazione Cicero (1951), di Mankiewicz, da ogni punto di vista equivalente a capolavori più celebrati come La contessa scalza (1954), Eva contro Eva (1950) e Il fantasma e la signora Muir (1944). Et voilà, rieccoli di nuovo: quei due cosi, che fanno silenziosamente la guardia al nascondiglio che James Mason ha affittato, per i propri segreti e nefasti traffici, per Danielle Darrieux.

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Operazione Cicero, 20th Century Fox

Ho fatto accidentalmente anche un’altra scoperta: gli specchi usati in due diversi film della 20th Century Fox – o meglio, un due scene piuttosto importanti di due film altrettanto noti – sono in realtà lo stesso specchio.

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Eva contro Eva (1950), 20th Century Fox

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Come sposare un milionario, 20th Century Fox

E ancora – una volta che inizi a far caso a queste cose le noti dappertutto –: una delle statue usate in Canto d’amore (1947) è ridipinta per sembrare fatta di malachite in un altro film, Spettacolo di varietà (1953), di Minnelli. Non si butta via niente, insomma.

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Canto d’amore, MGM; Spettacolo di varietà, MGM

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L’ultimo degli esempi è forse la scoperta più fortuita di tutte. Un amico mi ha regalato un cofanetto con alcuni dei film meno noti e per lo più poco riusciti di Rock Hudson, fra i quali il film di Douglas Sirk Il capitalista (1952). Nel film si vede una statua nella casa che la famiglia di nuovi ricchi ha acquistato. Mi sembrava stranamente familiare, anche se non riuscivo a ricordarmi dove l’avessi vista. In Come le foglie al vento (1956), sempre di Sirk, un film che conosco molto bene, c’è una statua molto particolare che si vede di sfuggita nell’ingresso dell’hotel di Miami in cui Robert Stack porta per la prima volta Lauren Bacall. Può essere che sia…? E se fosse la statua in Il capitalista? Ero impaziente di controllare il DVD di Come le foglie al vento per vedere se si trattasse effettivamente della stessa statua. Bingo! Era proprio lei.

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Il capitalista, Universal; Al contrario in Come le foglie al vento, Universal

Ma la vera serendipità arriva dopo: la stessa settimana in cui ho fatto questa scoperta, c’era un articolo nel New York Times in cui si annunciava la riapertura del rinnovato Detroit Institute of Art, e c’era una foto di una delle acquisizioni più importanti del museo, una scultura del 1867 a opera di Giovanni Maria Benzoni, La danza di Zefiro e Flora: la scultura lasciata a prendere polvere nei magazzini della Universal, in attesa che qualcuno trovasse l’occasione giusta per sfruttarla, era una copia o un rifacimento di una scultura che una volta era più importante e di valore di quanto non lo sia adesso.

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La stessa scultura, senza piedistallo, si intravede a malapena, come parte di una fontana, in una scena notturna di Il trapezio della vita (1958).

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Il trapezio della vita, Universal

A proposito invece di Come le foglie al vento e di Benzoni, di cui per inciso non avevo mai sentito parlare prima di queste scoperte, in un’altra inquadratura di quello stesso hotel di Miami possiamo vedere per un attimo un’altra delle sue sculture, Amore e Psiche, alla fine di un corridoio. Questa statua è visibile anche nella Alte Nationalgalerie di Berlino Est ne Il sipario strappato (1966) di Hitchcock. Il museo era stato ricreato, per lo più usando il trasparente, nei backlot della Universal. La scultura, chiaramente proveniente dai loro magazzini, era stata aggiunta per ravvivare un po’ l’ambiente. Evidentemente, il reparto scenografia della Universal deve aver recuperato le due copie di Benzoni in una sorta di asta prendi-due-paghi-uno.

42Come le foglie al vento, Universal

43Il sipario strappato, Universal

Dopo aver scritto buona parte di questo testo, ho visto in tv Scarface, di De Palma, sempre della Universal – la morale di questo articolo potrebbe anche essere che vedo troppi film che invece non dovrei guardare. Se non altro, ne è valsa la pena per il fatto che, alla fine del film, si possono intravedere – comparse della grande sparatoria che c’è nella villa di Pacino – sia Amore e Psiche che La danza di Zefiro e Flora. Non c’è dubbio che la Universal, nel lungo periodo, sia in effetti rientrata della spesa fatta per questi due acquisti. Non posso fare a meno di chiedermi però se De Palma, che ha costruito la sua carriera sull’imitazione, la cannibalizzazione di Hitchcock, sapesse o sappia degli illustri precedenti di questi props, o quanto Sirk sembrasse avere un debole per loro.

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Scarface (1983), Universal

Ultimo degli avvistamenti riguardanti Benzoni: giusto l’altra notte ho rivisto, per la prima volta dopo molto tempo, il sublime Lettere da una sconosciuta (1948), di Ophüls, sempre Universal. Qui c’è la prima apparizione di un Benzoni, anche se non ne sono completamente sicuro. Quindi, per riassumente, l’oggetto di scena è stato ampiamente sfruttato in quanto prop di proprietà degli studi – e non stiamo nemmeno facendo riferimento alle probabili “comparsate” che ha fatto in serie televisive e film per la TV della Universal.

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Lettere da una sconosciuta, Universal

In Il capitalista c’è anche una scalinata in un tribunale: la stessa che appare, due anni dopo, in Magnifica Ossessione, stavolta come parte del set dell’ospedale. Questa “location”, flessibile e pronta a essere adattata a qualunque funzione la sceneggiatura le attribuisca, con qualche minimo aggiustamento, era molto probabilmente una delle tante sezioni di edifici pronti all’uso contenute nei capannoni della Universal.

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Il capitalista

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Magnifica ossessione, Universal

Difatti, fa di nuovo il suo dovere in Lo specchio della vita (1959), questa volta come parte della scuola di Sarah Jane (alla scala qui manca il corrimano).

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Lo specchio della vita, Universal

Quello appena descritto è un aspetto dei film a cui non pensiamo spesso, o forse non vogliamo pensarci. Noi vogliamo (o forse dovrei usare il passato a questo punto, volevamo) che i film facciano la loro magia. Vogliamo/volevamo essere illusi dall’illusione. Non vogliamo che ci venga rammentato che il cinema è un business attento ai propri costi, come tutte le altre attività commerciali del resto, che tiene a bada le spese, che tiene conto di ogni centesimo speso. Non vogliamo che gli venga sottratta la magia. Non vogliamo riflettere sui risvolti marxisti di ogni scena – a meno che non stiamo guardando un film di Straub e Huillet oppure di Godard –, come ci fosse un contatore dei costi in basso a destra sullo schermo che ogni volta segnali, come un tassametro, ticchettando, le spese sostenute per costruire ciascun set, il costo dei tessuti, dei mobili, di ogni oggetto di scena, indicando dove è stato acquistato o quanto è costato realizzarlo. Vogliamo che l’illusione venga preservata. Lasciamo da parte i fatti e teniamoci il sogno. Non vogliamo sapere che il più incantevole dei film, Playtime di Jacques Tati, è stato il più costoso film francese fatto fino a quel momento, o che lo sforamento del budget portò Tati alla bancarotta, costringendolo a rinunciare ai diritti dei suoi film precedenti e rendendo molto più difficile per lui realizzare altri film in seguito.

Perciò cosa ci insegna questa ricognizione – ammesso che insegni qualcosa che non sapevamo già? Sappiamo che anche se gli studios di Hollywood non lesinavano sulle spese per le loro produzioni, allo stesso tempo i capi e i produttori facevano attenzione a ogni penny. E se loro puntavano a creare una magia per il pubblico, il cinema doveva essere un’esperienza molto meno magica per la troupe, per i lavoratori sul set, inclusi gli attori, che arrancavano sulle stesse assi film dopo film, con le luci, i set e gli oggetti risistemati in modo da trasformare un luogo fin troppo familiare in una location apparentemente nuova di zecca. E a noi spettatori, desiderosi di credere in questa totale trasformazione, talvolta l’apparizione di un oggetto difficile da identificare, ma che ci sembra di aver già visto, o di un mobile che ci sembra familiare, ma non sappiamo perché, i film con le loro “parti intercambiabili” insomma, procurano la sensazione di stare sognando, o una sensazione di déjà-vu che potrebbe essere ben più di una sensazione.

L’aspetto triste e allo stesso tempo meraviglioso di questa consapevolezza è che non serve realmente a demistificare i film, ma li rende più misteriosi e inconoscibili che mai: non più finti, ma più stratificati, con delle storie ancora più complesse e contorte alle spalle di quanto non immaginassimo, e quindi con delle connessioni ancora più strette tra loro.

Ci sono dei film in cui gli oggetti hanno un ruolo di primo piano, sono funzionali allo sviluppo della trama – come gli orecchini ne I gioielli di Madame de…, di Ophüls, o il fucile che passa di mano in mano in Winchester ’73, di Anthony Mann. O la corda per saltare dal manico di legno in Viridiana, di Buñuel, che all’inizio è il giocattolo della ragazzina nell’hacienda di Don Jaime e finisce per essere invece la cintura di colui che vorrebbe violentarla. In questi film i props finiscono per rappresentare qualcosa di più: diventano metafora dei contesti sociali e degli stati psicologici ed emotivi di cui si rendono partecipi loro malgrado. Coagulano strati di senso, mentre in essi converge una rete di relazioni e di svolte narrative, e finiscono per farsi dei feticci il cui valore supera quello attribuito loro dalla trama. Finiscono per simboleggiarla, per contenerla anche se non coincidono con essa. In un certo senso, diventano simili alla giacca da smoking che passa di mano in mano in Destino, facendosi testimoni di molte vite e di molte storie. Ma si tratta di eccezioni nella storia degli oggetti di scena. La maggior parte dei props non ha altrettanto valore.

O forse non è proprio così: Cocteau, come sempre, lo dice benissimo ne La belle et la bete: journal d’un film, scrivendo a proposito dello straordinario effetto che fanno i volti umani incastonati nella cornice del caminetto della Bestia:

“Quelle teste sono vive, guardano, respirano attraverso le narici, si voltano, seguono il movimento degli artisti, che non le notano. Forse è così che si comportano tutti gli oggetti che ci circondano, approfittando della nostra abitudine a considerarli immobili”.

Proviamo quindi a immaginarci uno scenario diverso. Le vite segrete degli oggetti. Di cosa parlano gli alimenti all’interno del frigorifero – come si vede talvolta nei cartoon o nelle pubblicità per la TV – quando la porta è chiusa, le luci spente e i proprietari della casa sono fuori? Cosa dicono gli oggetti di scena, dentro i magazzini una volta che le porte sono chiuse, dei film a cui hanno preso parte?

Pensiamo alle vite immaginarie di oggetti che esistono solo per perpetuare una finzione, mentre vengono riciclati da un film all’altro. Hanno tutti etichette che ne descrivono la provenienza e la storia personale – in quale film sono stati utilizzati, quanto erano vicini alla macchina da presa, la loro posizione all’interno dell’inquadratura, per quanto tempo sono stati inquadrati. Confrontano fra di loro queste etichette e si raccontano storie a vicenda, aneddoti sulle cose divertenti o terribili accadute sul set. Spettegolano sulle star e sui registi. Si vantano l’uno con l’altro del loro pedigree e del loro percorso artistico, dei loro trionfi e dei loro film preferiti. Si dicono con quale attore vorrebbero lavorare, quali erano i migliori cameramen o tecnici delle luci, raccontano di quella volta in cui per poco non sono stati fatti cadere e rotti in mille pezzi, oppure del tutto ignorati. “Sono apparso in quello e in quell’altro set, quell’attore famoso mi ha accarezzato, quell’altro mi ha bistrattato, questo mi ha ammirato, quest’altro completamente ignorato”.

Ma forse è possibile – solo possibile – che gli oggetti in fondo non siano così fissati coi divi o affascinati dai film hollywoodiani come lo siamo noi.

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(testo pubblicato per gentile concessione dell’autore e degli editori; traduzione di Chiara Grizzaffi)