King Kong: colui che regna sovrano sulla cima più alta del mondo libero. E tuttavia, la sua percezione di sé e del suo potere si basa su un’illusione: da un momento all’altro quegli aerei riusciranno ad abbatterlo. La storia di Kong è, in realtà, il racconto angosciante di uno spiazzamento, di una contraddizione, di una non-riconciliazione: quando il regista di successo dice alla fine del film che “è stata la bellezza che ha sconfitto la bestia” dimentica che, nella fiaba, la fanciulla amorevole salva l’uomo liberandolo dalla bestia che era. Kong, invece, muore e basta: un finale poco rassicurante per qualunque fiaba. La deludente versione contemporanea della storia di Kong, realizzata da Peter Jackson, ricicla senza pensarci questa pretestuosa battuta finale.

La cultura popolare è stata influenzata dalle immagini di questo possente gorilla fin dal 1933 – l’anno di uscita del primo King Kong di Cooper e Schoedsack –, e in particolare da due declinazioni profondamente diverse di quelle immagini: Kong in alto, e Kong steso al suolo. Marco Ferreri mostrava, quasi all’inizio di Ciao maschio, la carcassa di Kong in decomposizione in una strada di New York ancora nel 1978; Yann Lardeau dei “Cahiers du cinéma” considerò piuttosto triste la trovata pubblicitaria che accompagnava la première parigina del remake del 1976: un pupazzo meccanico di Kong che giaceva steso e si contorceva, mentre gli spettatori si radunavano su una piattaforma posta sopra di lui e lo fissavano. (1)

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Emmanuel Frémiet, Gorilla che rapisce una donna, 1887, bronzo

C’è un prima e un dopo l’icona di Kong. In Kiss of the Beast, una mostra aperta dal novembre 2005 al gennaio 2006 alla Queensland Art Gallery, i curatori Ted Gott e Kathryn Weir hanno presentato i risultati della loro ricerca, che ha messo in luce i collegamenti tra il primo King Kong e una serie di pratiche artistiche e dell’immagine che lo precedono, soprattutto il lavoro dello scultore Emmanuel Frémiet (1824-1910). Il suo Gorilla che rapisce una donna (1887) è una sorta di matrice per il famoso gesto di Kong, quello di afferrare una donna bianca e affermare così la sua sovranità. (2).

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King Kong (Merian C. Cooper & Ernest B. Schoedsack, 1933)

Il successivo profluvio di rivisitazioni parodistiche dell’immagine e della storia di Kong testimoniano chiaramente la nostra incapacità di prendere sul serio questo materiale di partenza, e dicono molto del disagio che proviamo quando si tratta di stabilire dove situare – e in qualche modo contenere – questa creatura che non è né umana né animale. Peter Jackson lo umanizza al massimo grado, lo rende sentimentale – una volta che ha placato l’istinto di calpestare qualunque cosa –, ma ci sono altre strade per affrontare quella che Giorgio Agamben ha definito la “sconnessione di questi due elementi”, l’umano e l’animalesco nell’umano, e le “incessanti divisioni e cesure” fra di essi. (3)

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Un giorno a New York (Stanley Donen & Gene Kelly, 1949)

Quando Ann Miller urla di fronte alle avance “bestiali” del marinaio Jules Munshin nel film della coppia Donen/Kelly Un giorno a New York, in fondo sta affermano il suo legame con Fay Wray (e i suoi prodigiosi polmoni) in King Kong. Dopo tutto, ha già stabilito che Munshin è chiaramente un essere meno evoluto, un ritorno alla creatura primitiva raffigurata dalla statua nel Museo di Storia Naturale. Ma una volta che si entra nel vivo del film e della canzone di questa scena – la brillante Prehistoric Man – tutti questi valori antiquati vengono immediatamente sovvertiti. Nel clima post-bellico di cui Un giorno a New York è impregnato, è la Donna (la donna che lavora, nello specifico), che incarna la Bestia, e l’uomo è la Preda. E come chiamavano Ann Miller all’apice del suo successo? Il magnifico animale.

(testo pubblicato per gentile concessione dell’autore e degli editori; traduzione di Chiara Grizzaffi)


NOTE

(1) Meaghan Morris, Great Moments in Social Climbing: King Kong and the Human Fly, in Id., Too Soon, Too Late: History in Popular Culture, Indiana University Press, Bloomington 1998.

(2) Ted Gott, Kathryn Weir, Kiss of the Beast: From Paris Salon to King Kong, Queensland Art Gallery Publishing, 2005.

(3) Giorgio Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 24.