Fra gli eventi che hanno accompagnato la 22esima edizione del Milano Film Festival, il più curioso è stato senz’altro NOI. Milano 1968-1977, installazione multischermo allestita presso gli spazi di BASE Milano per tutta la durata del festival. Nel testo di presentazione, il lavoro viene descritto con queste parole: «Attraverso 14 ore di filmati girati tra il ’67 e il ’77 dal Collettivo Cinema Militante e restaurati per l’occasione, NOI torna agli anni della rivolta studentesca per comprenderne mitologie e ritualità, per indagare la generazione che ruppe col mondo dei padri e che lottò in nome di nuove ideologie. Com’è accaduto che, nell’arco di cinquant’anni, il “noi” rivoluzionario si sia trasformato in discorso individuale?». Per rispondere a questa e a molte altre domande che l’installazione ci ha suscitato, abbiamo incontrato Alberto Saibene, che ha curato il progetto insieme ad Alberica Archinto e a Ranuccio Sodi – uno dei testimoni diretti di quella stagione, nonché membro del Collettivo Cinema Militante.


Innanzitutto, mi piacerebbe sapere come si è arrivati a un progetto di questo tipo. Invece di approntare un documentario di montaggio, avete optato per una specie di “visione sinottica”. C’è un motivo particolare?

La nostra idea, che si è formalizzata un po’ alla volta, è stata quella di disporre i materiali in una mostra o, si direbbe oggi, installazione. C’è stata anche la possibilità di vedere i film integralmente ma, a meno di essere molto appassionati, sono documenti che hanno più un valore storico, che filmico.  A quel punto abbiamo pensato che, pur in un percorso cronologico, la visione dovesse essere libera. Ogni spettatore è messo nella condizione di fare un suo montaggio e di percorrere come vuole quegli spazi.

Venendo ai materiali veri e propri, mi interessava sapere che criterio avete seguito nella compilazione e nella distribuzione. Avete discusso insieme soltanto l’impianto complessivo, oppure avete lavorato costantemente gomito a gomito?

Abbiamo guardato il materiale insieme perché il “noi” è partito da noi tre. C’era anche la malinconia, il magone, di vedere persone che non ci sono più, una città profondamente trasformata, anche se i simboli identitari e i luoghi sono rimasti gli stessi. Quando vinse Pisapia, dopo quasi vent’anni di sindaci non di sinistra, fu naturale ritrovarsi in piazza del Duomo, come nel 1945 e nel 1975. Ecco, in quel momento, e prima ancora, nella manifestazione del 25 aprile 1994 (che seguì il primo governo Berlusconi), riemerse lo spirito migliore degli anni Settanta: la forza della democrazia.

Un altro aspetto insolito, per non dire controcorrente, del lavoro è stata la vostra decisione di non fare dell’autobiografia o dell’auto-agiografia generazionale. È una cosa a cui molti, soprattutto nel rievocare ’68 e dintorni, non sanno sottrarsi: penso in particolare a Mario Capanna e alla sua retorica degli anni “formidabili”. Insomma, quel NOI che dà il titolo alla mostra non è un “noi” nostalgico, ma riguarda tutti quanti, anche i più giovani. E’ stata una scelta consapevole o soltanto un caso?

No, abbiamo voluto fin dall’inizio che fosse una mostra per tutti, non solo per chi ha vissuto quegli anni. Non avrebbe avuto senso. Anzi, dall’inizio, ci siamo posti il problema dei fruitori più giovani che sanno poco o nulla di quegli anni. Il NOI è in ogni caso un richiamo a una modalità di vita collettiva che, in maniera così pervasiva, non è più tornata. A pensarci meglio, esperienze così nuove era possibile affrontarle solo in gruppo. È significativo che la parola “collettivo” – ma siamo già in pieni anni Settanta – da aggettivo sia diventato sostantivo.

Visto che qui è permesso fare un po’ di autobiografia (e nostalgia), tu in quegli anni che cosa facevi? Hai partecipato in qualche modo alla temperie culturale e sociale che si vede nei filmati?

No, io ho solo ricordi di infanzia e di assemblee alla scuola media sperimentale che frequentavo dove scimmiottavamo i comportamenti dei più grandi. Siamo attorno al 1977. Ranuccio è del 1953, io del 1965, Alberica sta in mezzo. Anche tra noi ci sono differenze perché, si sa, gli anni della adolescenza e della giovinezza sono moltiplicatori di esperienze che, affrontate in anni diversi, danno esiti diversi. Parlando di me, arrivato al liceo e visti all’opera gli epigoni di quei movimenti, ho avuto un senso di ripulsa. Mi ricordo di una compagna di scuola che, in una fredda mattinata d’inverno, durante una manifestazione, ci disse: “Ragazzi, perché non venite a prendere un tè da me?”. Io non andai, ma nemmeno andai alle successive manifestazioni. Eravamo nel 1979 ed era già finito tutto.  Ho quindi seguito con interesse ma da lontano tutti i movimenti politici e studenteschi, dalla fine degli anni Settanta fino a Mani Pulite. Anche perché, nel frattempo, era arrivato il cosiddetto riflusso.

Questo lavoro è stata l’occasione, dopo La ragazza Carla, per un altro “tuffo” nella Milano del secondo Novecento. So che queste ricognizioni sul recente passato della città ti interessano molto. Trovi che ci sia una continuità diretta fra il lungometraggio del 2015 (anche quello presentato al MFF) e questa installazione? Il tuo ricostruire la storia recente di Milano è un modo obliquo per parlare della città di oggi, di come è diventata quello che è?

Certamente sono, in modo diverso, indagini sul cuore e la natura della mia città e della sua storia. La ragazza Carla, che prende spunto da un poemetto di Elio Pagliarani, racconta degli universali, l’alienazione dell’individuo nella metropoli. Negli anni Settanta, tutto questo si trasforma in una risposta contro trent’anni di sviluppo e progresso, considerato dalla nuova generazione come un destino segnato a cui ci si voleva ribellare. Oggi è difficilissimo pensare che un terzo della popolazione italiana contemplava, negli anni Settanta, la possibilità di una rivoluzione. Il riformismo era un pannicello caldo che si lasciava ai partiti laici e ai socialisti (e nemmeno a tutti). Nel mio ricordo di bambino le discussioni ideologiche erano all’ordine del giorno nelle famiglie. Era la frattura tra due generazioni che entrava nelle case.

L’impressione è che abbiate cercato di ricostruire entrambe le anime del decennio: quella più “politica”, dai toni più aspri e violenti, e quella più creativa e libertaria, che sfocia nel raduno di Parco Lambro nel 1976. Hai qualcosa da dire in merito?

Il decennio ha una evoluzione naturale che parte dalla reazione delle bombe di piazza Fontana e dalla morte di Pinelli. È bene ricordarsi sempre che l’assassinio di Calabresi fu il primo omicidio politico dell’Italia repubblicana che infranse un tabù con esiti di cui ancora oggi non sono state tratte tutte le conseguenze. L’acme fu raggiunto nelle giornate della primavera del 1975, la morte di Zibecchi e Varalli, immagini indelebili [Claudio Varalli e Giannino Zibecchi, militanti della sinistra extraparlamentare milanese, rimasero uccisi negli scontri fra manifestanti e polizia dell’aprile del 1975, a pochi giorni l’uno dall’altro, NdR]. Sembra un incubo da dittatura sudamericana. Dopo è cominciato il rifiuto della politica, che si è definito dopo il movimento del 1977. Il periodo tra 1975 e il ‘77 è ancora vissuto in maniera collettiva, anche se subentra uno spirito diverso. Per me gli eroi del 1977, del suo spirito libertario, sono Andrea Pazienza e, in forma diversa, Mario Mieli: un fumettista e un leader dei diritti dei gay. Figure che alla fine degli anni Sessanta non esistevano. In pochi anni la società cambiò in maniera rapidissima.

Sempre a proposito dei filmati, un’osservazione. Nei materiali dal carattere più esplicitamente militante, ho notato la frequenza con cui compaiono i funerali: quello di Feltrinelli, quello di Pinelli, quello di Calabresi e tanti altri. Viene in mente la memoria “necrologica” di cui ha scritto Sergio Luzzatto a proposito della Resistenza: la volontà di creare un martirologio laico e la necessità di documentarlo. E’ solo una mia impressione?

Me lo fai notare tu, ma è un’osservazione stimolante. Credo che bisognerebbe partire dai funerali di Togliatti – c’è il film dei fratelli Taviani e un celeberrimo quadro di Guttuso su questo avvenimento – ma prima ancora dalla Rivoluzione francese, dai martiri del socialismo, da Sacco e Vanzetti. Un funerale è un momento, allo stesso tempo, politico e umano, che tra l’altro non può essere ostacolato dalle forze dell’ordine. È un momento di sintesi: i funerali di Feltrinelli al Monumentale e quelli di Calabresi in una chiesa di quartiere si commentano da soli. Sono due Italie che allora non avevano punti in comune. Oggi, malgrado tutto, spero di sì.