RealismI; realISMO

Attraverso la sua storia e il suo nome – a posteriori e a priori, direbbe la scolastica –, il concetto di realismo rivela il proprio nulla.

La storia, innanzitutto – la storia delle pratiche significanti – mostra che pochi concetti estetici sono stati più accoglienti, quindi più contraddittori. In senso iconoclasta o in senso conservatore (si veda Jakobson) [1], rinfrescato o no da prefissi provocatori (sur, neo, iper), il termine finì per designare le successive ondate della produzione artistica da un secolo a questa parte. Poi, per estensione, da sempre. Direttamente o per spostamento, avrà definito così la pittura di Velasquez e quella di Courbet, Le Nain e Répine, i pittori stalinisti e Oldenburg, il Mao di Warhol e quello degli artigiani cinesi, Petronio e Balzac, Cervantes e Céline, Carné e Forman, Rossellini e Perrault (Pierre). Realismi. Il plurale è fatale ai concetti. Nel tentativo di voler comprendere tutto, si lascia sfuggire tutto.

Ma già la parola annunciava questo logorio, nel suffisso: ISMO connota il mancato profitto, lo sforzo necessario, la lotta; ISMO introduce un gioco – un vuoto – nella parola stessa, pone il reale come referenza a cui si mira, cioè mai raggiunta. Il concetto non esiste al di fuori della propria utopia. Se la pretesa che definisce (ri-produrre il reale) si compisse il concetto stesso si annienterebbe.

Del resto gli imperativi della ragione raggiungono qui quelli del linguaggio. Come Platone aveva ben visto, è nella logica dell’imitazione postulare temerariamente la propria abolizione: se riesce perfettamente, non è più possibile distinguere tra imitante e imitato; non c’è più imitazione ma raddoppiamento. Così è per il realismo, imitazione parossistica, il cui eroe eponimo potrebbe essere Pigmalione (antenato del Dott. Frankenstein) e la figura emblematica la bella Galatea, statua divenuta donna. Resta il fatto che il realismo può ottenere solo miticamente i suoi trionfi suicidi, realismo che, e ci ritornerò sopra, è sempre più o meno un modo per cercare di riprodurre una realtà a dimensioni in n-1 dimensioni.

Il realismo come iconicità

Tale problematica platonica concerne tuttavia solo un aspetto del problema del realismo. Questo, infatti, si sdoppia in altri due, che propongo di chiamare, per avvicinarmi più rapidamente ai problemi del cinema, quello dell’iconicità e quello dell’inquadratura.

Con «iconicità» si intende abitualmente l’attitudine di un segno ad assumere l’apparenza esteriore del suo referente: il segno iconico – motivato – si oppone in questo senso al segno simbolico, che è arbitrario. Il realismo è un modo per rafforzare le motivazioni, cioè di aspirare, attraverso il riferimento insistente a quel vasto al-di-là-dei-segni che è il reale, alla riduzione dell’arbitrario del segno. Alla riduzione, non alla scomparsa (che, se fosse possibile, renderebbe, come si è visto, il concetto di realismo nullo e inesistente). Tale riduzione, se accettiamo di parlare un momento come gli studiosi di informatica, consiste nel moltiplicare le informazioni componendo un programma che comporti il massimo possibile di parametri, anche questi accuratamente dedotti da un’analisi della realtà da riprodurre. In questo senso – attraverso l’intervento di parametri sempre più numerosi, si verifica un progresso storico dell’iconicità (e un’iconicità progressiva) dalla pittura bizantina alla pittura prospettica del Quattrocento, dalla pittura del Quattrocento alla fotografia, dalla fotografia al cinema muto in bianco e nero, dal cinema muto in bianco e nero al cinema sonoro a colori (ecc.). Inutile tornare sulle pagine dedicate a questi problemi da André Bazin (il cinema come mummia del tempo) [2], Michotte o Christian Metz (il movimento del reale come causa principale dell’impressione di realtà nel cinema) [3]. Aggiungiamo solo che Metz omette un altro fattore che potrebbe rafforzare questa impressione di realtà nei film sonori, forse ancora più decisivo del movimento: la sincronizzazione di due serie di stimoli, i segni sonori e i segni visivi dell’atto del parlare.

La metafora del calcolatore, utilizzata un momento fa, ha il vantaggio di ricordare che questa ricerca della iconicità non può essere condotta isolatamente e che si tratta soltanto, come i semiologi ripetono da qualche anno, di una questione di codici – anche nella fotografia, a proposito della quale una volta Barthes aveva imprudentemente scritto che era «un messaggio senza codice» [4]. Anche il disegno di una forma è codificato, se è vero che si tratta, come ho proposto, di tradurre in n-1n-x dimensioni una realtà a dimensioni. La storia del realismo, da questo primo punto di vista, culmina in quella del trompe-l’oeil (e di tutte le illusioni ottiche, illusioni acustiche, ecc. che fanno della storia dell’arte una storia dell’artificio). Sempre da questo punto di vista, il cinema ha evidentemente acquistato, senza gran merito, bisogna ammetterlo, il primo posto.

Il realismo come inquadratura

Ma il realismo non è nulla se si limita a essere un inganno dell’occhio senza essere anche un inganno della mente. Altrimenti le sue produzioni assomigliano a quelle ricostruzioni nello stesso tempo fedeli e esatte di uno scenario umano a cui giungono gli extraterrestri di 2001: Odissea nello spazio, poiché le immagini terrestri che ottengono a milioni di chilometri di distanza sono superficiali; poiché i dettagli e soprattutto la stessa esistenza della profondità sono sfuggiti. L’iconicità offre solo approssimazioni di superficie; diventa realismo nel vero senso della parola solo se anche qualcosa della profondità – di ciò che rende tale la superficie – viene rivelato. «Fotografare» una macchina o un essere o un rito o un gruppo sociale è realistico solo se nello stesso tempo, in un modo o nell’altro, risulta comprensibile il funzionamento di questa macchina, di questo essere, di questo rito, di questo gruppo sociale. Al limite, si può sostenere che il film di Kostas Sficas, Modelo, che, con un’inquadratura fissa di 3/4 d’ora, mediante il semplice spostamento regolare di personaggi e di oggetti, tenta di dare un’idea dello sfruttamento capitalistico, non è meno realistico del primo film derivato dal documentario che non sottintende alcuna analisi. Ci si comincia a rendere conto che non basta partire a caso, con la macchina da presa e il registratore a tracolla, per fare del realismo, e lo sappiamo da Vertov in poi, che ha teorizzato nello stesso tempo la ricerca della «vita colta sul fatto» e la insufficienza, se non viene strutturata, prima, durante e dopo, mediante tutta una serie di operazioni di «montaggio».

È a questo punto che con la profondità e il tempo viene introdotto il secondo problema del realismo: quello dell’inquadratura. Quale inquadratura – o, per usare un vocabolario più dinamico e, di colpo, più cinematografico, quale movimento di macchina –, quale punto (o serie di punti) di vista, permetterà di rendere meglio una realtà data – superficie e profondità, apparenza fissa e funzionamento? Questo è il problema.

In questo senso ancora, il realismo è solo una tendenza, sempre minacciata, sempre rassegnata a non raggiungere il proprio punto di arrivo. Punto sempre vago, dopo tutto, e che – «natura», «vita», «cose come sono», «realtà» – si avvicina più a una prospettiva focale o virtuale che alla realizzazione. Il realismo, in questo secondo senso (che è come la dinamizzazione del primo), è solo il rifiuto polemico di un modo di vedere (o piuttosto di non vedere) e la ricerca apertamente proclamata di una nuova inquadratura, che permetta di vedere meglio, o di vedere un’altra cosa, o di vedere diversamente la stessa cosa. Il reale è qui, in senso proprio, l’alibi. Il reale, per Courbet, è ciò che Delacroix dimenticava, e per Degas, per Cézanne, ciò che omette Courbet, Zola non vede lo stesso reale di Hugo: vede il reale contro Hugo. Percepisce, con un’ostinazione provocatoria, proprio gli elementi di fronte ai quali Hugo, volontariamente o no, restava cieco. Il reale del naturalismo – questo realismo tipo – è il rovescio del reale romantico, è il romanticismo in negativo. I burattini zoliani, mossi dai propri geni, sono gli eroi romantici «snervati», «enucleati», privati del grande cuore ineffabile che batteva sotto la loro pallida pelle, e che ritrovano ciò che il romanticismo ometteva: il carnale, l’ormonale, l’ereditario. La «bestia umana», è la «forza che va», sapendo finalmente da dove viene, e Thérése Raquin è una Cosetta amputata dell’anima e intralciata da un sesso. Ogni realismo è l’antirealismo di un altro. Nella successione quasi dialettica delle estetiche, realismo (o verismo, o neo-realismo) è il nome del movimento negativo che inevitabilmente, in nome di un contenuto che si ritiene misconosciuto o nuovo, viene a scuotere la tranquilla positività di un sistema di forme fissate dalla ripetizione e a portare quella sorpresa senza la quale, come hanno ben visto i formalisti russi, non si dà arte. Il bacio hollywoodiano, realista, quando sullo schermo nessuno si baciava, rifatto cento volte in cento film è solo una forma; il nuovo realismo consisterà nel mostrare la lingua, la saliva che cola e che non era mai colata, non perché è più reale, ma perché è il segno che qualcosa è cambiato nel regno dell’Eros, che c’è sempre qualche cosa che cambia, dappertutto. Il «reale» non è altro che questo mutamento a cui la forma tende senza tregua mancandolo ineluttabilmente. Il realismo è la rivincita dell’imprevedibile e dell’eterogeneo – della storia – sulla vocazione della forma all’eternità. È il confronto mimato e burrascoso tra il segno e ciò che pretendeva di significare ma non significa più, poiché, in esso, il significante ha preso il sopravvento sul significato finendo per evolvere mostruosamente, onanisticamente, solo dalla sua parte. Il realismo comincia come anti-formalismo e finisce come nuovo formalismo: il «reale» è stato solo un pretesto, pretesto per un cambiamento di convenzione formale (così come le rivoluzioni, nel XIX secolo, che sono state tutte condotte in nome del popolo, hanno provocato soltanto, ad eccezione della Comune, un cambiamento personale politico nella borghesia).

Contorni del vuoto

Eppure questo concetto vuoto, o quasi, ha un contorno. Tentiamo di delinearlo in quattro tratti:

  1. Il realismo è la preferenza accordata al più vicino (all’autore e ai suoi contemporanei), nello spazio e nel tempo. È il «senso del presente» che Charles Beuchat considerava caratteristico del romanzo naturalista. È anche il rifiuto dell’esotico [5], la volontà di guardare ciò che abbiamo sotto gli occhi ma che maschere diverse (educazione, convenzioni, censure) di un’estetica sclerotizzata o di un’ideologia dominante ci impediscono di vedere. Di qui spesso un modo di sottolineare aggressivamente che conferisce alla parola «realismo» le sue connotazioni di crudeltà e di «trivialità». Esistono comunque, a seconda del punto di vista socio-politico di chi guarda, due modi possibili di sopprimere queste maschere: quello di una classe sociale in piena ascesa, che vuole il proprio riflesso collettivo nell’arte e nella letteratura (come Beaumarchais che vuole, nei suoi «drammi borghesi», «onorare la gente del Terzo Stato»; come Eisenstein o Vertov che rendono omaggio al proletariato russo); e quello di una classe dominante che si attribuisce il merito, con un piccolo brivido esotico, di osservare con la lente di ingrandimento una classe dominata. È il gioco del naturalismo dei Goncourt di cui, con cinismo e ingenuità, Edmond rivela gli scopi reconditi nel suo Journal del 3 dicembre 1871. «Ma perché scegliere ambienti del genere? Perché è in basso che, quando si cancella una civiltà, si conserva il carattere delle cose, dei personaggi, della lingua, di tutto… Di nuovo: perché? Forse perché sono un letterato di nobile origine, e il popolo, la canaglia se volete, esercita su di me l’attrazione di popolazioni sconosciute».
  2. Il realismo, è il ricorso più ampio possibile a materiale non ancora estetico. Come, nel cinema tedesco degli anni 20, l’importanza capitale degli esterni urbani (Die Strasse, di Karl Grune, 1923; Berlino, sinfonia di una grande città, di Mayer, Freund e Ruttmann 1927; Asphalt, di Joe May, 1929; Berlin Alexander- platz, di Phil Jutzi, 1931). Come nei film neo-realisti italiani, l’impiego di attori non professionisti, di gente che rappresenta il proprio ruolo (La terra trema di Visconti). Come nei romanzi di Zola, l’importanza del linguaggio della strada. Come, nei film di Warhol, in The Chelsea girls ad esempio, le lunghe conversazioni improvvisate. Come, nel realismo «pop» o nell’iperrealismo, gli oggetti più quotidiani – hot dogs, occhiali da sole, automobili- , tutto l’aspetto rifiuto di pattumiera o di Standa.
  3. Il realismo è la volontà di far dimenticare il possibile il carattere fittizio della finzione, di occultare il processo di enunciazione, in breve di produrre opere di «immacolata concezione». È Flaubert che cerca di «non esserci»; è «il ritirarsi davanti alla realtà», con la preferenza accordata ai lunghi piani- sequenza e la riduzione del montaggio pressoché a nulla, in cui André Bazin individuava una caratteristica del cinema moderno e, prima, dei film di Von Stroheim, Murnau, Flaherty, Dreyer o Renoir [6]. Non è difficile vedere in questa volontà di annullamento dell’istanza creatrice un mondo quasi magico per suggerire al mondo di manifestarsi «di persona». Insomma, il realismo è la tendenza instancabile e utopica a far dimenticare che un’opera è solo un’opera, cioè Ersatz codificato – «così che alla fine, come scriveva Paulhan nei Fleurs de Tarbes, il teatro si trova a dover evitare più di tutto il teatrale, il romanzo il romanzesco, la poesia il poetico». E, aggiungerei, il cinema il cinematografico.
  4. Il realismo, è il rifiuto dell’unico, dello straordinario e, in generale, dell’avvenimento. È il trionfo, nei racconti, di quello che Barthes chiama le catalisi, cioè i tempi deboli o morti, gli interstizi tra due segmenti narrativi densi. È il trionfo del dettaglio per il dettaglio, che «ritarda» senza «ragione» lo sguardo o il racconto (è, in Ultimo tango a Parigi, la donna che si pulisce la dentiera nella toilette mentre Jeanne aspetta di telefonare). È tutto ciò che è insignificante dal punto di vista dell’economia narrativa o dei sistemi di significazione codificati.

Per finire: il punto in cui siamo

Sembra che il parametro rispetto al quale si gioca oggi il problema del realismo nel cinema sia quello del tempo. Il problema non è più soltanto, come in Lumière, Flaherty, Rossellini o Forman, quello dell’inquadratura di una parte di spazio, ma, a partire da Warhol, Michael Snow, Chantal Akerman (Jeanne Dielman, 23 quai du Commerce, 1080 Bruxelles), il taglio di una porzione di tempo, restituito tale e quale, senza ellissi né montaggio. Secondo quale durata (e più semplicemente, secondo quale punto di vista) una realtà data può cominciare a manifestarsi? Bisogna ammettere, per quanto possa essere ripugnante esaltare questo gadget, che la videocassetta, restituendo immediatamente ciò che riprende, rad- (s) doppiando perfettamente il tempo, senza eccessivi problemi di limite, ha contribuito a un’evoluzione in tal senso.


NOTE

[1] R. Jakobson, Du réalisme artistique (1921), trad. francese di Tzvetan Todorov, in Théorie de la littérature (Paris, Seuil, 1965). Trad. it. I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, Torino, Einaudi, 1968.

[2] Ontologie de l’image photographique, in Qu’est-ce que le cinéma?, Tomo I (Paris éd. du Cest, 1958). Trad. it Che cos’è il cinema?, cit.

[3] Essais sur la signification au cinéma, Tomo I (Paris, Klincksieck, 1968). Trad. it. Semiologia del Cinema, Milano, Garzanti, 1972.

[4] « Communications » n.4 (Paris, Seuil, 1965).

[5] Tranne nel caso in cui l’esotico sia una dimensione essenziale di un vissuto. A volte il realismo consiste anche nel mostrare l’idealismo di un individuo o di una classe sociale. Madame Bovary è un romanzo realistico. A ritroso pure.

[6] Montagne interdit, in Qu’est-ce que le cinéma?, cit.


(pubblicato originariamente in Il cinema diversamente [Cappelli, 1979]; con il contributo di Giulia Claudia Massacci)