Il film francese più atteso della selezione ufficiale dell’ultimo Festival di Cannes, l’unico firmato da un regista che si ritrovava per la prima volta in concorso, è stato accolto fin dalle prime proiezioni con grande interesse, anticamera riconoscibile del Gran premio della giuria poi ottenuto. Certo il tema di rilievo, in un momento in cui continuano le morti per AIDS ma si preferisce non parlarne, ha fatto la sua parte ma sarebbe sbagliato ricondurre solo a ciò il convinto sostegno che ha individuato in 120 battiti al minuto di Robin Campillo uno dei film più politici della presente stagione.

Campillo è artefice delle narrazioni più innovative del cinema francese contemporaneo: da una parte il suo Les Revenants (che poi ha dato vita alla serie televisiva) insinua l’elemento perturbante nella quotidianità per mettere in crisi la razionalità della società contemporanea, dall’altra con La classe di Laurent Cantet, di cui è sodale montatore e sceneggiatore fin dai primi lavori, ha saputo trovare una chiave drammaturgica nella costruzione di un film che segue unicamente l’elaborazione del discorso nel suo tramutarsi (o meno) in dialogo. Proprio questo ruolo duplice di sceneggiatore e montatore, all’inizio e alla fine del complesso processo narrativo di un film, crea l’effetto che le opere di Campillo (o quelle in cui l’autore è fortemente coinvolto) seguano un processo di progressiva focalizzazione del linguaggio cinematografico. La precisione del punto di vista della narrazione viene portata all’estremo in fase di riprese e di montaggio, in una continuità di sguardo che concede ben poche distrazioni all’istanza spettatoriale.

Fin dalle prime immagini 120 battiti al minuto richiama quel gioco di assunzione delle forme documentarie da parte della fiction che era alla base de La classe: se nel film scolastico la camera sembrava spinta dal flusso verbale, pronta ad arrestarsi nei monologhi e a prendere vita nelle scene corali, qui centro propulsore è l’assemblea del movimento Act Up Paris nei primi anni Novanta. Proprio sulle discussioni in seno al gruppo, ancora di più che sulle azioni di protesta, si concentra la narrazione di questo film fluviale, riuscito nella sfida di rendere avvincente il discorso politico, che ha reso la comunità LGBT una delle ultime cellule occidentali sovversive e militanti.

La lotta di Nathan, Sean e Thibaut è dettata da un’urgenza, ancora più che l’esclusione dall’immaginario collettivo (ben rappresentata dallo shock di vedersi sui giornali solo tumefatti dall’AIDS), dalla brutalità di essere tramutati in cavie da parte di un sistema medico che sembra non registrare l’urgenza del numero crescente di vittime. Sul modello newyorkese, il movimento prende piede anche a Parigi, registrando un cambiamento nella percezione dell’omosessualità e anche una trasformazione nell’autorappresentazione dei militanti. Sean, creativo ed esuberante quanto fragile e autodistruttivo, vuole smettere di marciare come uno zombie e inventa una schiera di ragazzi ponpon che portano per le strade un urlo di condivisione. Il suo gesto servirà da spunto per pensare in maniera diversa la protesta, che da quel momento si trasforma in messa in scena esuberante ed efficace.  La regia di Campillo si muove su due registri: il realismo dialettico della parola lascia spazio a studiate coreografie visive, volte a esaltare la bellezza della manifestazione, dell’essere insieme per una causa, in un moto prestabilito in cui ogni gesto è passato dall’approvazione di un’assemblea. Il sangue imbratta le pareti delle case farmaceutiche, i completi dei burocrati, fino a sostituirsi all’acqua della Senna: finalmente al centro di un’attenzione negata. I corpi dei suoi giovani combattenti si muovono in danze esasperate dai ralenti e illuminate dai fari di una discoteca in cui ci si ritira dopo la battaglia.

120 battiti al minuto raggiunge i suoi momenti più belli proprio nel diventare non solo un film sulle battaglie di Act Up, ma sulla radicalità dell’intervento politico collettivo. Per questo non sappiamo nulla dei protagonisti di questo racconto, quasi non conosciamo i loro compagni, il loro passato e nemmeno (come fa notare Nathan nel film) la professione che svolgono fuori dal movimento. Quello che li definisce non è essere un impiegato o un infermiere, ma il loro impegno per la causa. E a questa causa il film aderisce in maniera così totalizzante che persino la struggente storia d’amore tra Nathan e Sean passa in secondo piano, ne è una figurazione altra che permette di allargare il discorso per sottolinearne la complessità nel tragico finale. Sean crede alla causa, ma si ritrova a fare i conti con la propria malattia che lo costringerà a smettere di lottare, facendogli provare la paura della morte. E, con lui, Nathan si trova a guardare a distanza da una parte la sconfitta esistenziale, dall’altra la vittoria collettiva, in una delle calibrate e raggelanti inquadrature conclusive. Niente è facilmente risolto, ma la battaglia continua.