Una nave di folli carica di materiale radioattivo, infestata di parole e paranoia, in rotta verso un luogo che non esiste: forse è un po’ sommaria come sinossi della criptica vicenda di 9 Doigts, ultima fatica di F. J. Ossang che al festival di Locarno ha vinto il Pardo d’argento per la regia, ma non funziona male come descrizione del suo cinema, che da più di quarant’anni, fieramente marginale e necessariamente intermittente, irradia bagliori di rivolta poetica seguendo una personale linea di deriva, magnetizzato dall’altrove e inebriato dagli anacronismi. Filmmaker, scrittore, modulatore di litanie post-punk con la band M.K.B. Fraktion Provisoire, Ossang raccoglie in sé gli umori più corrosivi del novecento dal dada al situazionismo e li infonde in un cinema insieme esoterico e popolare, che non evita di indulgere nella magniloquenza, offrendo però un godimento schietto della materia cinematografica, merce rara tra tante esangui produzioni contemporanee.

Sempre immersi in un bianco e nero sontuoso e carico di contrasti (con l’eccezione di Docteur Chance, 1998), i film di Ossang sospendono cinema di genere e avanguardia in un miscuglio ricco e turbolento. Anche in 9 Doigts il cupo scenario apocalittico che già pervadeva Le Trésor des îles Chiennes (1991) e Dharma Guns (2010) si mescola ai fumi del noir più nichilista per addensarsi in interni claustrofobici che danno sull’immensità dell’oceano: da Melville (Jean-Pierre) a Melville (Herman), anche questo film è una fuga attraverso lo spazio e il tempo. In una città portuale Magloire (Paul Hamy) sfugge a un controllo di polizia, incappa in un moribondo e in una grossa somma di denaro, finendo così per diventare prima ostaggio e poi complice della banda criminale del defunto, capitanata da Kurtz (Damien Bonnard). Fallito un colpo, il gruppo s’imbarca su una nave mercantile: un vascello fantasma che trasporta un carico mortifero di polonio, incarnazione della materia oscura che attrae e perde gli uomini, come già il deleterio Stelinskalt prodotto nelle îles Chiennes.

Come nei precedenti lungometraggi, tuttavia, il labirinto wellesiano dell’intreccio, tra evanescenti femme fatales e cinici  profittatori, si sfilaccia nelle volute oppiacee di un ruminare esistenziale, mentre ogni vettore dell’azione s’inabissa in un’atmosfera opprimente di tradimenti e macchinazioni, lo sciabordio delle speculazioni metafisiche invade le scarne scenografie da Poverty Row e la fuga diventa estasi dell’irrimediabile. Intossicato e ispirato da un incessante dialogo coi morti, il film trabocca di citazioni, evoca sabotatori del linguaggio come Lautréamont e Raymond Roussel, ma anche i vampiri di Murnau e Dreyer, le cospirazioni cosmiche di William Burroughs, e poi ovviamente le avventure oceaniche di Poe, Verne, Conrad… La sfida all’ignoto che anima ogni epopea marina finisce per far collidere utopia e rovina: la mitica Nowhereland, che Kurtz cerca di rintracciare sulle sue mappe, altro non è che il “Pacific trash vortex”, l’enorme isola mobile di rifiuti plastici formata dalle correnti dell’Oceano Pacifico, destinazione impossibile di un’impresa condannata a essere risucchiata a sua volta in un vortice di delirio e pestilenza.

Ostinato e ritornante, Ossang coniuga il sovraccarico referenziale con un approccio autarchico e punk, mosso dalla necessità di fare cinema a partire dalle proprie passioni e a dispetto di ogni moda: i suoi continui tuffi nel passato non trasmettono il conforto narcotico della nostalgia, ma un livore che agita la bonaccia del presente. “All my fucking friends are fucking dead!” declama sui titoli di coda di 9 Doigts: il brano s’intitola Loi de fantômes ed è proprio questo senso di una fine consumata, questa legge dell’inattualità, a prestare al suo cinema il suo spessore visionario e debordante, facendo di ogni opera qualcosa di terminale e rigenerante al tempo stesso, uno sforzo che insiste su una soglia sfuggente, tra un’apocalisse imminente e una rivoluzione rimandata. Un caso illuminato di retrofuturismo, che immagina il futuro guardando dal passato e viceversa; e per quanto rischi di perdersi in questo circolo markeriano come il protagonista di La Jetée, non smette mai di cercare linee di fuga, una velocità critica che proietti oltre la fine.


Nei tuoi film c’è spesso una sovrapposizione tra una situazione apocalittica e l’attesa di una palingenesi: al di là della visione storica che questo implica, penso sia anche qualcosa di concreto che ritrovi ogni volta nel set, nella sua dimensione di rischio e di scoperta. Non riesco a non ricollegarlo con quanto dici sulla realizzazione dei tuoi film, che ogni volta per te è come fare il primo film e anche l’ultimo.

Viviamo in un’epoca apocalittica, ormai il pianeta vive a credito: se tutto il mondo vivesse come la Francia servirebbero le risorse di tre pianeti, per il modello degli Stati Uniti addirittura cinque… Di sicuro non può andare avanti in eterno. Sì, è vero, ogni volta è come se fosse il primo film e anche l’ultimo: anche questa volta è stato piuttosto difficile e ho avuto molta fortuna, perché anche se abbiamo ottenuto subito un pre-finanziamento dal CNC [Centre National du Cinéma e de l’Image Animée] non ho ricevuto sostegno da alcuna televisione, pur avendo provato tra Francia, Italia e Portogallo, e soltanto poi ho trovato miracolosamente un giovane produttore, Sébastien Haguenauer e nel giro di due mesi abbiamo riorganizzato tutto e ci siamo gettati nella produzione. Abbiamo iniziato le riprese in Aquitania, tra Biarritz e Pau, poi ci siamo spostati nelle Azzorre, dove per fortuna avevo già contatti stretti con un altro produttore, Luis Urbano, e abbiamo girato per sei settimane in Portogallo.

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È la terza volta che giri alle Azzorre, dopo Le Trésor des îles Chiennes e Dharma Guns: che cosa ti attrae di questi luoghi?

Era la terza volta, si può dire abbia concluso la mia trilogia azzorriana. Ho grande simpatia per quel posto, è ancora Europa, ma è molto particolare, un posto a parte, un po’ come la Bretagna o il Cantal, la provincia dove sono nato io: a volte è complicato avere a che fare con loro, ma ce la siamo cavata bene, anche grazie al direttore di produzione portoghese Joaquim Carvalho. Le isole mi hanno sempre affascinato, come luoghi dell’utopia libertaria, penso a casi come Libertalia [colonia anarchica fondata da pirati nel diciassettesimo secolo in Madagascar, la cui esistenza storica è disputata], ma nell’immaginario sono anche luoghi terrificanti, come l’isola del dottor Moreau. In ogni caso si trattava di pensare un luogo ben inquadrato, individuato precisamente dalle mappe, come quelle che Kurtz esamina di continuo nel film, ma che al tempo stesse fosse un posto che non esiste, almeno non esiste per gli altri, dove si possa vedere senza essere visti…  Fare un film su una nave è complicato, col cinema come con la navigazione si è coinvolti nell’economia globale e con una piccola produzione come la nostra si rischiano un sacco di soldi, non si può sgarrare, ma siamo riusciti a organizzarci con varie navi container che viaggiano sulle Azzorre. Per quanto duro, è stato divertente lavorare su una nave e mi sono trovato benissimo con lo scenografo, Rafael Mathias Monteiro, appena uscito dalla Fémis e al suo primo film, ha fatto un lavoro superbo. Già con Îles Chiennes, che è stata un po’ un’esperienza iniziatica per me e i miei collaboratori, mi sono reso conto di come la regia, la fotografia e la scenografia avanzino ciascuna per conto proprio, ritrovandosi per descrivere una situazione, mentre spesso, ad esempio in tanto cinema francese, si mettono semplicemente una sull’altra: è un cinema della tautologia, dove la recitazione, la sceneggiatura, la cinepresa, la musica, descrivono tutte la stessa cosa, si mettono in pila e si annullano.

I tuoi film in effetti si distinguono per una costante discrepanza: anche per esigenze di budget, certamente, l’azione incombe spesso fuori scena, mentre il campo sembra occupato da una tensione tra le potenze dell’immagine e della parola. In cosa consiste per te l’azione cinematografica?

Da una parte tutti i miei film sono per forza di cose minimalisti, ma dall’inizio ho voluto sempre affrontare generi caratterizzati dall’azione: nel primo film, L’affaire des divisions Morituri (1984) c’erano dei gladiatori, Le Trésor des îles Chiennes è un film d’avventura… Si tratta di un conflitto in cui mi muovo, perché alla fine ciò che amo è il cinema-cinema: Orizzonte perduto di Capra, Ejzenštejn, Fritz Lang… E all’epoca questi registi, benché avessero molti mezzi, non potevano mostrare tutto, mentre nel cinema di oggi, con tutti i trucchi del digitale, si vede tutto. Così la limitatezza di risorse è stata sempre per me un’occasione di nascondere per mostrare. Penso sia questa la vocazione del cinema: il cinema non è solo il visibile. Trovandomi in un universo marittimo mi sono appassionato agli effetti elementari che offriva l’ambiente: materie, passaggi di nuvole, forme vaghe che stanno tra il cielo, la terra e il mare, adoro queste atmosfere, specie quando la canicola rende tutto confuso e indistinto. D’altra parte, anche la concentrazione dell’ambiente della nave mi ha incoraggiato a realizzare un’idea di fondo, che avevo già quando scrivevo il testo: doveva essere un film sulla parola, volevo filmare la parola. Da tempo sono ossessionato dal cinema muto e dalle sue immagini, ma qui ho voluto creare una fitta nebbia di parole, come un eccesso che pervade tutto. Un film che mi ha veramente impressionato è La Maman et la Putain di Jean Eustache (1973): è un film straordinario per molte ragioni, anche per i pochi soldi con cui è stato girato, e certo la fotografia è geniale, è forse la miglior prova di Jean-Pierre Léaud, ma il film è innanzitutto la parola: è un testo magnifico, uno dei migliori testi per la scena dell’epoca.

In questa “nebbia di parole” tu lasci aleggiare un fantasma di narrazione, o meglio di tante narrazioni passate: anche se da una prospettiva un po’ postuma, sembra tu abbia un enorme fiducia nella capacità del cinema di raccontare.

Un altro aspetto che mi attraeva del genere marittimo era la possibilità di fare un film di fantascienza, ma all’inverso: perché se in tante storie classiche di fantascienza quello che si è fatto è stato trasportare il motivo della navigazione nello spazio, qui io fatto un po’ il contrario, portando un’atmosfera fantascientifica su una vecchia nave. Questa prospettiva a rovescio mi offriva l’occasione di esplorare mondi sul punto di emergere, in via di costruzione, ma sempre avvolti dal segreto, dalla cospirazione… E insieme pensavo ai libri della mia infanzia, al Capitano Nemo: il cinema ha sempre avuto un lato infantile, e credo sia una cosa da conservare, anche se poi il mio cinema non è affatto leggero, ci tengo a questo aspetto immaturo, che ha a che fare con quelle storie, i fumetti, la letteratura pulp… Oggi molta gente pensa che non sia più il caso, che queste storie non si possano più raccontare, ed è curioso come Zeitgeist. Pensa ad esempio a come il Medioevo è stato descritto dagli scrittori del XVI°, del XVII° o del XIX°: non raccontano mai la stessa storia e questa cambierà in base a ciò che è loro contemporaneo, ogni volta è tutt’altra cosa. E così al cinema, ogni volta bisogna reinventare, a partire dal set. Per esempio, restando sempre sulla nave abbiamo dovuto anche ricavarvi dei falsi studio improvvisati, sfruttando elementi già presenti: mi piace questo tipo di astrazione sul set, ricomporre e reinterpretare dei dettagli, e il bianco e nero aiuta molto a trasfigurare, è perfetto per questo tipo di riterritorializzazione, come anche per sublimare gli attori: basta un costume, uno sbuffo di fumo… Alcuni pensano che il bianco e nero sia solo un manierismo, ma non lo è affatto… Gli scrittori spesso capiscono il cinema meglio di tanti altri, e questo lo spiega bene Julien Gracq, grande appassionato di cinema, parlando di Nosferatu: dice che l’espressionismo tedesco è ben più di una poetica romantica, perché lavora su un fondo prettamente plastico del registro romantico, che ha in qualche modo elettrizzato. D’altra parte, è vero che non si possono più fare le cose come una volta. Pensa a Il dottor Mabuse di Fritz Lang, 1922: è un film sconvolgente, anche alcuni italiani e francesi dell’epoca sono interessanti, ma i tedeschi avevano una radicalità efficace. Quel film ha in sé tutta la grammatica che ritrovi oggi in un film e la vitalità del montaggio, dei primi piani, e si era solo a 25 anni dall’invenzione del cinema. Un secolo più tardi non si fanno più i film allo stesso modo e noi, che arriviamo un po’ in coda a tutto, dobbiamo raccogliere quel che rimane, anche se abbiamo budget sempre più piccoli e i film non interessano più alle grandi masse come una volta. Ma al tempo del muto si trattava proprio di questo: film d’avanguardia destinati alle masse. Il cinema, del resto, è stato il grande affare del ventesimo secolo.

OC961842_P3001_234358Sembra assurdo come oggi rivendicare il legame con una tradizione, fare cinema come una volta, anche ad esempio pretendendo di girare in pellicola, sia percepito come qualcosa di capriccioso o persino di sovversivo…

Sovversivo lo è solo rispetto a una menzogna dell’economia, perché tutta la storia del digitale è una menzogna economica. Per il video agli inizi ho avuto una passione, mi piaceva il rumore dell’immagine video, rifilmarla con la cinepresa e reinterpretarla, dunque non ho pregiudizi sull’argomento. Quello che non accetto, e su questo ho scritto anche un libro, Mercure Insolent, è l’eradicazione del cinema, perché dal 1896 fino all’altro ieri l’unica cosa che ha contraddistinto il cinema in ogni momento è stata la pellicola, e dunque perché dovrebbero impedirci di continuare? Se ho scelto di girare ancora in pellicola è perché amo questo aspetto chimico, la luce che corrode la materia, il confronto tra il sole e la pellicola… E produrre il film in questo modo è stato complicato, perché i laboratori sono sempre meno disponibili, specie per film che hanno risorse limitate, e se sono arrivato in fondo è anche grazie a una struttura comunista, per cui ognuno prendeva lo stesso salario, dal regista all’assistente costumista, attori compresi.

La cosa aberrante è che in questi anni fare film è diventato anche molto meno costoso: io ho lo stesso budget dalle Chiennes, ma una volta col montaggio analogico tra montatori per l’immagine, per il suono e i relativi assistenti ci volevano cinque persone. Per questo film a montare al computer eravamo in tre, il montatore, io ed Elvire [compagna di Ossang e qui interprete nel ruolo di Gerda]; e questo sul piano pratico, a parità di budget, significa che ho a disposizione molta più pellicola. Ma d’altro lato è proprio la sua preziosità che spinge verso l’eccellenza: quando si gira diventa un’operazione sacra, ha un effetto molto concreto sul set, che si anima di uno spirito collettivo, un collettivismo attivo. C’è una disciplina con la pellicola: sai che se hai girato bene, hai il film. Mentre col digitale ormai è tutta questione di post-produzione, il direttore della fotografia dovrebbero chiamarlo responsabile della color correction, ormai si ricalibra tutto, ci sono registi che restano due mesi e mezzo a farlo. Io col girato di Dharma Guns ci ho messo tre giorni. Il cinema per me è il solo modo d’espressione al presente assoluto, perché al di là degli effetti speciali, si monta, non si ritocca: è come se si scrivesse una sola volta per tutte, senza cancellare, ma solo tagliando e rimontando il testo ormai scritto.

Questo lavoro di montaggio lo applichi in qualche modo anche a ciò che è già scritto, non solo al cinema, ma anche alla letteratura del passato. Come gli altri film, anche questo abbonda di citazioni, che sembrano più di semplici omaggi: che ruolo hanno nel film la letteratura e la poesia in particolare?

Il film è attraversato da un’idea letteraria e, per quanto possa essere subliminale, decidendo di fare un film d’avventure marittime sono certo stato molto influenzato da Edgar Allan Poe, che amo tantissimo e trovo geniale, anche se poi sono sempre tanti gli autori che mi hanno segnato: Glauber Rocha, Ejzenstejn, Sternberg al cinema, come Poe, Artaud, Céline, Lautreamont, Dino Campana in letteratura. Del resto i romanzieri di un tempo avevano un po’ il ruolo dei registi, costruire grandi finzioni, erano gli Spielberg dell’epoca. La gente che fa il cinema spesso non sa parlarne, o comunque gli scrittori ne parlano in modo più interessante, i poeti soprattutto: all’epoca del muto, tutti i poeti dell’avanguardia, gli Artaud, i Blaise Cendrars, i Roger Gilbert-Lecomte, erano fanatici di cinema. E la poesia ha molto a che fare col cinema: c’è una poesia visuale, ritmica, ed è sempre precisa, essenziale, perché non c’è più tempo, tutto sta per esplodere. E anch’io, quando ho cominciato e volevo diventare uno scrittore, a un certo punto mi sono detto: “Se vuoi far della poesia, dovrai fare dei film!”.

eb7136ffb04daf889d7c246d37623b3c(Locarno, agosto 2017; con la collaborazione di Alessandro Stellino)