Nei primi attimi, magnificati tra le violente onde delle cascate di Iguaçu, sembrerebbe di trovarsi davanti a un simpatico ibrido tra Luis Buñuel e Sorellina e il principe del sogno. Potrebbe anche ingannare la presenza, tra i produttori, di Pablo Larraín, uno dei nuovi auteur che ci sta educando a ri-considerare la fantasia a supporto di storicità dichiarate – dall’epopea dolente e anti-glamour di Jackie al compiaciuto randagismo narrativo di un’opera come Neruda.
Eppure di fiabesco Una donna fantastica mantiene solo la titolazione d’apertura. Il cileno Sebastián Lelio abbandona le cascate e ogni implicazione lirica in pochi istanti: ci vuole poco perché l’opera assuma contorni civili, di estrema consapevolezza politica, anche a scapito del racconto. A Marina, la protagonista, Lelio affida il lavoro sporco seguendo una delle regole più complesse per un cineasta che vuole parlare al grande pubblico: dissodare il personaggio della sua complessità.
La scelta di questo corollario è rischiosa: Marina è una trans cui viene negata la possibilità di affrontare il dolore seguito alla morte del compagno, umiliata e ostracizzata nella sua dimensione umana dalla famiglia dell’uomo. Una storia che presta il fianco a docili sentimentalismi viene coraggiosamente affrontata con piglio muscolare, con geometrie regolate da dettami di totale sobrietà. Marina introietta la sua frustrazione militarizzandosi con estrema dignità da una parte all’altra di Santiago del Cile, alla ricerca del cane di famiglia (sì, famiglia) che le è stato sottratto insieme alla possibilità del pianto.
La fiaba non è dunque neppure nel formalismo, ma nel modo con cui la donna reagisce alle situazioni: tutto, intorno a lei, scolorisce con progressivo controllo, proprio come le sue emozioni. È lei la fiaba, il racconto trattenuto, la creatura fantastica che non crolla di fronte ai sentimenti e che vive fantasie e passioni con estrema compostezza. Quando vola in primo piano durante un’onirica sequenza in discoteca, è per pochi secondi soltanto: ci scruta con un’espressione indefinibile, per poi farci ripiombare nella lanugine e nelle crepe di una solitaria indifferenza.
Lelio scommette e investe: il suo film è azzerato da ogni traccia di empatia. Una parziale inversione di rotta rispetto al suo fortunato Gloria, dedicato a un altro personaggio femminile; una scelta che non lo pone di fronte all’immedesimazione del pubblico, neanche nei momenti più intensi della pellicola, come l’attacco omofobo alla protagonista. Il regista dirige Daniela Vega con una sicurezza che ha pochi eguali negli ultimi titoli distribuiti in sala: la collaborazione tra i talenti di entrambi provoca degli smottamenti ancora più interessanti, portando Marina a un livello di astrazione che allontana la realtà e, al contempo, la richiama per interpretarla in maniera diversa.
Sappiamo poco del suo passato: Lelio la lascia libera dalla sua storia e dai suoi patimenti non più tangibili. Perché Marina è presente, è qui e ora. È plasmabile, ma risoluta. Si colloca tra una, due e cento storie: afferra decisioni, affronta lo smarrimento, vive la sua vita. Non si avverte mai la necessità del compatimento, o della sofferenza condivisa: doveva arrivare Lelio, un autore che poteva anche parere destinato a un cinema borghese per un pubblico della domenica, per spiazzarci con un dramma romantico sgrossato di ogni compiacimento. Anche l’umiliazione, per la donna fantastica, è uno dei tanti scalini oscuri che la separano dal riappropriarsi di qualcosa che ha smarrito. E che è soltanto suo: il riconoscimento della rivincita è qualcosa di estraneo alla globalità.
Un mélo politico, non immune a una tesi, ma sceneggiato con grande rigore e con una linearità che sorprende senza cadere mai nel semplicismo. Lelio non vuole raccontarci nulla di più rispetto a quello che possiamo vedere: propone una storia vera, nemmeno troppo articolata, inchiodando però lo spettatore a una marginalità passiva, incapace di giudizio e di intervento. Una tortura – positiva – che rende Una donna fantastica un esperimento, una provocazione che permette di sviluppare considerazioni inedite sul ruolo del pubblico nei confronti del cinema di medio consumo così come è inteso oggi. È possibile apprezzare una narrazione di matrice, sentimenti e contenuti tradizionali, senza dovere a tutti i costi catapultarci dentro la nostra individualità? La risposta è sì, ma non tutti i film sono Una donna fantastica.