Quando la vita del giovane protagonista s’interrompe bruscamente, a causa di un incidente stradale, ci troviamo soltanto all’inizio del suo viaggio. Coperto da un telo bianco, C torna al luogo in cui ha vissuto i suoi ultimi giorni: è uno spettatore il cui sguardo vacuo è destinato a posarsi sul dolore della compagna M, rimasta ormai sola e incapace di darsi tregua dopo la sua scomparsa. E anche questo è solo l’inizio: vincolato all’abitazione, osserverà intere epoche succedersi l’una all’altra, ancora e ancora, fino alla fine del mondo. Anche a partire da questa breve premessa, è impossibile non pensare a A Ghost Story come una riflessione sulla temporalità, dal punto di vista cinematografico ma soprattutto esistenziale. Se da una parte il film di David Lowery recupera con lucida ironia e delicatezza tutta una serie di spinte citazioniste, viaggiando tra più canoni propositivi e modalità descrittive, inevitabilmente si cimenta anche in un transito che ha il tono della meditazione, destinato a chiudersi in immagini sempre più evocative e affascinanti: il suo è un iter che non solo macina secoli e forse millenni a livello narrativo, ma che utilizza il tempo (e quindi, i mezzi di scomposizione e frammentazione dei gesti sulla scena – tra cambi di inquadrature, montaggio ed ellissi varie) come funzione, come parte integrante del racconto. Provando a sintetizzare, il percorso descritto dal film parte da una dilatazione che ricorda l’opera di Tsai Ming-liang – in cui le azioni dei protagonisti si consumano integralmente sulla scena, annullando la distanza tra gesto vissuto e gesto recitato – e procede per progressive contrazioni a partire dalla comparsa del fantasma al centro del suo interesse. Il ritmo si fa rarefatto, sognante (qualcuno potrebbe pensare al recente Malick) e nel giro di pochi minuti trascorrono ore, forse giorni, addirittura mesi; infine, nel momento in cui M abbandona la casa e il fantasma rimane solo, il vortice si rende forsennato, e tra un’inquadratura e l’altra passano anni, secoli, millenni. Lowery si sente allora libero di sperimentare le estetiche più disparate: la parodia agrodolce di un horror, una spolverata di sci-fi, qualche traccia di western, tornando infine al dramma romantico da cui si è partiti.

L’appropriazione della temporalità, resa qui consapevole strumento visivo e narrativo, parte col pretesto dell’entità spiritica dalla chiusura su di uno spazio unico e imprescindibile: quello della casa del protagonista defunto. Una costante del moto di trascendenza che porta il nostro sguardo (assieme a quello del fantasma) a travalicare intere epoche è proprio quella spaziale: A Ghost Story va al di là del tempo – non dello spazio. Una rivendicazione chiara al centro delle stesse immagini, peraltro in tutto e per tutto postmoderna: disinteressate al corpo, esse non possono che fagocitare il tempo – il viaggio inizia nel momento in cui la salma del giovane viene lasciata in obitorio e procede in assenza della stessa, occultata sotto al telo. È una loro fissazione a vincolarle al luogo d’origine, puramente emotiva (il biglietto rimasto nascosto nel muro), che non possiamo che mettere in parallelo a quelle già viste nei moti d’appropriazione di Interstellar di Nolan o di Arrival di Villeneuve, o ancora in Your Name di Shinkai: svincolate da qualsiasi fattore e in grado di librarsi al di là di qualsiasi limite, queste visioni sembrano aggrapparsi a un barlume d’umanità, al feticcio di un’emozione provata e ricercata strenuamente. Benché il viaggio nel tempo sia per sua stessa natura trascendente, esso torna sempre a chiudersi in una riconciliazione emozionale. In questo caso essa struttura lo spazio del racconto, delimitandolo e imbrigliandovi un protagonista ormai privo di qualsiasi riconoscibilità e di ogni approccio empatico, errante, senza una meta ma costretto all’interno di un circuito preciso. L’alienazione che lo sospende oltre la sua umanità lo costringe a essere uno spettatore esterrefatto e muto di una realtà soverchiante, di una strabordante somma di eventi cui non può che assistere confuso. Un fruitore schiacciato e inghiottito dalle immagini che lo circondano, eppure a sua volta un’immagine – il cui sguardo specchia il nostro sguardo, il cui viaggio è simile a quello che affrontiamo noi.

Che siano vincolate ai gesti, ai volti e ai sentimenti delle sagome che le abitano o che siano invece prese in una danza confusa e ineffabile, queste visioni si muovono all’ombra di un ricordo opaco, nell’attesa di qualcosa di indefinito. Quanto più viaggiano al di là di quest’ombra tanto più sono in grado di farvi ritorno alla fine del loro cammino. Tutto, di nuovo, non può che risolversi in una struttura ciclica: così il nostro fantasma incontra sé stesso e raggiunge il suo ricordo proibito – e il film finisce. Al di là della riflessione che porta avanti, A Ghost Story riesce a schivare lo schiacciante senso di nichilismo in cui vuole assorbirci (si pensi al monologo durante la festa) e approda piuttosto a una zona franca in cui domina una malinconia avvilente, priva di risvolti, china sui cardini che sorreggono l’immagine contemporanea: il fantasma e il tempo. al di là di ogni flusso indistinguibile di immagini (e tempi) c’è sempre un barlume, angosciato e invisibile – verrebbe da dire ancestrale – di emotività. Cosa resta alla fine di tutto questo, se non l’ennesima attesa di un’apocalisse che deve arrivare ma non arriva mai? Poco importa, sembra sussurrare Lowery mentre i singulti elettronici di I get overwhelmed chiudono il suo cinema sul nero dei titoli di coda. Importante, piuttosto, è che tutta questa vorticosa alienazione ci abbia colpiti e coinvolti, nel tentativo disperato di ricordarci che al di là di ogni flusso indistinguibile di immagini (e tempi) c’è sempre un barlume, angosciato e invisibile – verrebbe da dire ancestrale – di emotività.