Tra i molti commenti che hanno accompagnato l’anteprima veneziana e l’uscita in sala di Suburbicon è capitato spesso di leggere la previsione secondo la quale George Clooney, realizzando questo film, abbia suggerito le basi per una sua futura candidatura, in campo ovviamente democratico, alla presidenza degli Stati Uniti. Una previsione coraggiosa, certamente interessante per analizzare come la salita al potere di Trump abbia visceralmente colpito l’opinione pubblica e, in particolare, la parte a lui avversa, tanto da far leggere l’attualità politica non più secondo coordinate razionali, ma secondo quella spettacolarizzazione e quella stessa dittatura dell’immediato contestate al candidato repubblicano. È, d’altro canto, evidente come in Suburbicon risuoni lo spirito liberal di cui il regista è tra i più celebri promotori e come le sue prese di posizione siano dichiarate senza riserve, nonostante il film segua, vedremo, due strade apparentemente parallele.

Suburbicon nasce infatti da una sceneggiatura che i fratelli Coen scrissero negli anni ’80 e poi accantonarono, fino ad affidarla all’amico interprete di molti loro film. Pregnante è lo spirito coeniano che determina l’origine del lavoro: riecheggiano il nichilismo di Fargo (1995), la stupidità folle e pericolosa di Burn After Reading (2008) e la mediocrità diventata sistema de L’uomo che non c’era (2001). Dal canto suo, Clooney conferisce all’opera proprio quell’approccio diretto assente nel cinema dei fratelli del Minnesota, interessati ad un’analisi più antropologica e filosofica che di esplicito orientamento politico, e a stilare uno stupidario nichilista della società e della contemporaneità (per quanto proprio per questa via il loro cinema risulti eminentemente politico).

Come dunque premesso, il segmento d’ispirazione coeniana e quello più evidentemente liberal e schierato convivono e avanzano parellalemente, caratterizzando ciascuno le due vicende portanti del film. Il fattaccio criminale che avviene tra le quattro mura di una tipica villetta americana e che vede come protagonisti i personaggi interpretati da Matt Damon e Julianne Moore e le sue conseguenze scatenano il sarcasmo, il cinismo e il grottesco tipicamente coeniani; il senso di minaccia e di pericolo incombente che aleggia sulla famiglia di colore appena trasferita nel lindo, ordinato, funzionale ed elegante sobborgo paradiso per la classe media che dà titolo al film porta invece con sé evidenti echi dell’attualità e diventa un sardonico apologo contro il razzismo, con firma più personale del regista. George Clooney riesce in fin dei conti ad amalgamare consapevolmente le due parti, e a creare un unicum efficace, almeno per un buon tratto del suo film.

C’è infatti un climax quasi apocalittico con cui le vicende esplodono pressoché all’unisono, mostrando così come le due coordinate narrative principali evolvano solo all’apparenza in maniera indipendente, estranee l’una all’altra, ma legate nella sostanza a doppio filo perché espressione di uno stesso substrato sociale e culturale. Ognuna finisce per essere specchio dell’altra, e il parallelismo sottolinea e rafforza lo sguardo critico verso il culto dell’apparenza, la cecità dell’appartenenza, l’intolleranza feroce e ipocrita del mondo che il film ritrae. Scelta, quella della “simmetria”, che conferisce al lavoro una dose di sconsolata e ironica cattiveria, nonostante sia altrettanto ingombrante la maniera con cui Clooney riprende la poetica coeniana, negando a Suburbicon la piena originalità e in parte annacquandone il potenziale satirico.

La regia riesce a tenere a bada le prese di posizione e rivendicazioni politiche che puntellano il racconto, impedendo loro di divorare il film, fino alla didascalica e stonata chiusura. Inutilmente retorica e fuori fuoco, portatrice di una speranza un po’ posticcia e, appunto, di una svolta ideologica troppo palese e artificiosa, la sequenza finale di Suburbicon pare motivata dall’esigenza del regista di ribadire a chiare lettere la propria contrarietà alla nuova stagione politica statunitense, rischiando però di stemperare la forza sardonica che il film poteva esprimere fin dalla sua prima sceneggiatura.