Che Visages Villages sia un film di incontri mancati e realizzati lo si capisce dalle primissime scene. Si alternano due voci fuori campo, una maschile e una femminile, che raccontano come non si sono incontrati, mentre sullo schermo vediamo i due protagonisti/personaggi/registi occupare lo stesso spazio, quindi incontrarsi, senza parlarsi, in questa peculiare reale finzione che poi pervaderà tutto il film. Dissonanza tra audio e visivo, prima, delle tante, indagini su cosa può il cinema.  I due sono JR e Agnès Varda, un giovane eclettico misterioso artista e fotografo francese, e un’anziana aperta solare materna e madrina; mettono in scena il loro incontro (realizzato, stavolta), la loro decisione di lavorare insieme e fare questo film. Sembra chiaro cosa spinga una delle più importanti registe di sempre, classe 1928, animatrice della Nouvelle Vague, costante sperimentatrice, imperitura viaggiatrice, a continuare a mettersi in gioco: per quanto banale sia, è l’amore per il cinema. Di più. L’amore per l’immagine e le immagini, per la visione, specie quando la vista viene meno.

Agnès Varda arrivata a quasi novant’anni ha infatti problemi agli occhi. Ha bisogno di un aiuto e lo trova in JR, un artista specializzato in collage di foto che attacca su pareti in giro per il mondo, un po’ fotografo un po’ street artist – anche se, dice in una scena del film, ciò che fa più spesso è stare sulle impalcature. JR ha 33 anni, quanti ne aveva JLG – apprendiamo dal film – quando lui e Varda lavorarono assieme. JLG è naturalmente Jean-Luc Godard, e la sua ombra, la sua immagine e assenza di immagine, ricorre per tutto film: sotto forma di film, nelle scene di Les Fiancés du pont Mac Donald ou (Méfiez-vous des lunettes noires) (1961), il cortometraggio diretto da Varda con Godard e Anna Karina nei panni di due fidanzati, sotto forma di memorie e racconti, che la regista sottopone al giovane “erede”, e come grande mancanza nelle scene finali. Il ricordo di quegli anni gloriosi, la nostalgia del cinema quando il cinema contava, è uno dei temi portanti: non soltanto i riferimenti espliciti, come le immagini del film più famoso della regista francese, Cléo de 5 à 7 (1962), che appaiono all’inizio di Visages Villages, ma anche un gioco molto più sottile su cosa siano immagini (in una società dove le immagini sono espanse, esplose, ovunque) e sul loro ruolo. Narrativamente, il filo conduttore del film è un viaggio che i due intraprendono in una serie di paesini (i villages del titolo) dove JR fotografa gli abitanti usando un camion adibito a cabina fotografica e poi attacca le giganti fotografie su palazzi, rovine, case demolite o che stanno per essere demolite, e quant’altro. Sia il cinema che la fotografia, in fondo, nascono così (o almeno è così che vivono la loro prima infanzia): dagli ambulanti che se ne andavano in giro per le campagne e le città e fotografavano e facevano vedere quanto fotografavano. Ma attaccando poi quanto le giganti fotografie sui muri degli stessi paesi, JR compie anche un’altra, duplice, operazione, cioè creare infiniti schermi ovunque, non – ma da mettere – in movimento e non tecnologici, e farlo magnificando il soggetto, portando i particolari in primo piano, rendendoli evidenti. Tutto, letteralmente, diventa cinema. Il cinema si riprende la vita che la tecnologia gli ha tolto, e prova di nuovo a fermare la morte, morte dei paesini, di un mondo che non c’è più, dello stesso cinema.

Che sia un film sul vedere lo dimostrano anche i movimenti di macchina ricercati, dalle fulminanti riprese dal basso del suonatore di campane, ai numerosi crane-shot, le camera car, è una continua ricerca che non scade mai nell’accademismo: troppo amore per le immagini per risultare volgari o pedanti. E il cinema, per Varda, continua a essere incontro, scoperta, meraviglia. Il mio più grande desiderio è vedere facce nuove, si dice nel film, mentre uno degli operai della fabbrica dove JR e Varda vanno a fare foto, dopo essersi visto ingigantito su un muro, guarda la telecamera e dice: L’arte deve sorprenderci, giusto? La regista, minuta, energica, segue JR in giro per i paesini della Francia (che tante volte ha esplorato nei suoi film, dal 1955 in poi), giocando sulle sue inabilità, la vista in primis ma anche l’impossibilità di camminare veloce o correre, la fatica a far le scale. Incontrano tante persone, e ricostruiscono un caleidoscopio di mestieri, che ancora esistono, ma contano di meno: gli operai, naturalmente, sia quelli di una fabbrica dell’interno, sia i fieri portuali di Le Havre (e le loro mogli, in un meraviglioso contrappasso dell’orgoglio macho-operaio), i postini, l’uomo che suona le campane, la barista, l’agricoltore che adesso grazie ai ritrovati tecnologici può lavorare da solo tantissima terra. Lavoratori e lavoratrici che resistono. Come nel suo celebre Les glaneurs et la glaneuse (2000), Varda lavora sugli scarti, su ciò che viene escluso dal mainstream, che rimane ai margini, su ciò di cui il capitalismo si è liberato, senza troppo rimpianto – incluso, naturalmente, il cinema. Ma la sua non è una nostalgia sterile, né un’anti-tecnologismo puerile: questo è un film che guarda al passato per cercare di capire cosa sarà il futuro, che si interroga sull’uso delle nuove tecnologie (vediamo continuamente foto/telecamere nuovissime), sull’avvento di nuovi usi e costumi (selfie ovunque), che cerca di capire quale posto possano ancora occupare il cinema e la fotografia in questo panorama – letteralmente, nel senso che le gigantografie di JR occupano il panorama e con queste gli abitanti sono invitati a interagire, con selfie, foto, e venendo interrogati a favore di telecamera. Ma anche portando vecchie foto di famiglia a cui i due registi danno nuova vita, trasformandole su un muro della casa di famiglia. E le vecchie foto sono anche quelle della stessa Varda, che fu fotografa prima che regista, tornando al paese dove fotografò un amico fa rivivere le sue foto facendole prima mettere in scena dal nuovo modello JR, poi gigantografandone una addirittura su un ex bunker nazista soggetto all’alta marea – che dopo appena un giorno cancella il murales fotografico. Meravigliosa ed esplicita metafora del potere effimero delle immagini. Nel 1945 André Bazin parlava del complesso della mummia, cioè la necessità dell’uomo di difendersi dal tempo, “la morte non è che la vittoria del tempo. Fissare artificialmente le apparenze carnali dell’essere vuol dire strapparlo al flusso della durata: ricondurlo alla vita”. Siamo sempre lì, alla ricerca di un modo per imbalsamare il tempo, e questo film ci offre un catalogo di possibilità – rischi di altee maree e sparizione dell’immagine inclusa. Ci pensi mai alla morte, chiede JR alla quasi 90enne Varda, che risponde che sì, certo, ci pensa. E allora vale la pena provare a bloccare il tempo, una volta di più, a immaginificare il presente, alimentato dal passato della Nouvelle Vague, del ricordo lavoro che c’è sempre meno (ma che resiste), dei paesini che vengono de-popolati, dalla memoria delle due guerre mondiali che appaiono con dei brevissimi passaggi, dei minatori di cui ormai rimangono solo le case abbandonate dove resiste una signora tenace – tenace come Agnès, l’ultima superstite della Nouvelle Vague, che infatti le dice, adesso siamo amiche.

Solo che non è proprio l’ultima. Rohmer, Rivette, Chabrol, Resnais, negli ultimi anni sono morti tutti. Oltre a Varda, rimane solo JLG, vivo, recluso, isolato. Si citano i suoi film, inclusa una parodia meravigliosa: nei corridoi nel Louvre, invece di correre (come in Bande à part, 1964), JR spinge rapidamente una carrozzina con Varda sopra – non posso più correre, ma ho te (cos’è, in fondo, il cinema oggi se non una carrozzina che si fa spingere da altro, che siano videogames, pop-corn, video-arte, youtube e quant’altro?). JR non è solo l’occhio della regista, quell’occhio malato che vediamo venir curato con un impressionante primo piano molto buneliano/daliniano, come ricordano i due scherzando su Un chien andalou (1929): JR è anche le gambe, metafora che poi diventa esplicita quando il fotografo, nelle ultime scene, attacca sui vagoni di un treno gigantografie di pezzi di corpo di Varda. Non a caso il film si chiude con i due registi che dormono (gli occhi chiusi, cioè l’assenza dello sguardo, ma anche il sogno, lo stato onirico da sempre associato al cinema) su un treno, cioè uno dei primi soggetti del cinema (Arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat, Lumière, 1896) e uno dei simboli di quella modernità di cui il cinema stesso si è fatto portavoce e interprete. E da dove torna/dove va il treno? Dalla Svizzera, dove l’altro ultimo dei pionieri della Nouvelle Vague – e quindi, del cinema contemporaneo – si è rifugiato da decenni. Ma è un altro mancato incontro; JLG si nega, lascia solo alcune frasi, enigmatiche, che richiamano Jacques Demy (amico di Godard e marito di Varda, altro grande interprete del cinema francese, morto nel 1990) e che fanno piangere e disperare la regista, per una volta, l’unica del film, senza sorriso sulle labbra. JR prova a interpretare questo gesto, come da ormai quasi sessant’anni proviamo a interpretare qualunque cosa Godard faccia, e poco importa se il complicato e crudele scherzo di JLG alla sua amica e al giovane erede sia “vero” o finzione cinematografica – che differenza c’è per chi ha fatto del cinema la vita e della vita il cinema?