1999: il taciturno Vlada conduce un camion dal Kosovo a Belgrado. Non sa cosa trasporta e avanza in una luce livida, lungo un territorio aspro, segnato dal conflitto in corso e negli echi di un’altra guerra, quella in cui ha combattuto suo padre 50 anni prima. Lungo il tragitto accoglie un giovane autostoppista, Paja, componente di una band punk e deciso ad abbandonare il proprio paese per trovare una vita migliore in Germania. Sarà il ragazzo ad aiutarlo a percorrere una strada alternativa quando troveranno il passaggio bloccato da un’auto in fiamme e a contribuire ad avvicinare il protagonista alla generazione del figlio, con il quale ha un rapporto conflittuale. In Teret la guerra rimane costantemente sullo sfondo, ma perennemente percepibile: i colpi di pistola fanno sobbalzare, anche quando sono quelli festosi e a salve che un ubriaco spara durante un matrimonio; la sirena della polizia fa temere il peggio quando il camion viene fermato per una perquisizione, ma i fucili spianati si abbassano di fronte a una lettera che illustra la ragione del viaggio. Lo spettatore ne è messo a parte tardi, contemporaneamente al protagonista: il carico è quello che si può immaginare, ma non viene mostrato, se non per mezzo di un unico, breve campo lungo, ripreso attraverso il riflesso di un vetro, ma quello che si vede non lascia dubbi.

Vent’anni dopo, delle fosse comuni a Batajnica, a 15 chilometri da Belgrado, nei pressi di un’uscita dell’autostrada per l’aeroporto, non rimane alcuna indicazione. E c’è un che di fantasmatico anche nella maniera in cui Ognjen Glavonić filma il luogo, di notte, in una cupa oscurità che corrisponde a quella in cui è sprofondato un intero popolo. Si spendono poche parole in questo film d’esordio: a contare sono più i gesti, i silenzi, le attese, lo sguardo del protagonista che va a caccia di un ladruncolo che gli ha rubato le sigarette dal cruscotto e si nasconde in un monumento ai caduti su una collina, in mezzo al niente, in quella che è una delle scene più evocative dell’intero film. Un cielo basso, grigio, grava come una lapide sul paesaggio circostante, ugualmente grigio di roccia, terra e fango. Teret conferma la promettente statura di un regista che sullo stesso tema aveva gia realizzato il potente documentario Depth Two (in cui restano memorabili la testimonianza di uno dei sopravvissuti all’eccidio e quella di uno dei perpetratori), presentato a Berlino e poi in giro per numerosi festival internazionali: sono entrambi il risultato di sei anni di ricerche, il documentario realizzato mentre con grandi difficolta il regista cercava di farsi finanziare il film di finzione. E come in quel film, il regista, serbo, non cerca alibi o scappatoie ma si carica sulle spalle (e su quelle di un perfetto protagonista perfetto) la responsabilità di una tragedia di cui nessuno all’epoca parlava, forse perché davvero in tanti non sapevano, ma che grava sulla coscienza come una colpa che non lascia scampo. [Alessandro Stellino]


MV5BZTllZWEyZDctMGFmNC00NWZkLWEyMzYtZjMwNWVlMGEyZGNiXkEyXkFqcGdeQXVyNzQ0MDUyMzg@._V1_SX1777_CR0,0,1777,744_AL_

LOST IN LOS ANGELES

Non è semplice descrivere e definire Under the Silver Lake, terzo film di David Robert Mitchell, passato oggi in corso a Cannes. Innanzitutto, arriva sulla Croisette accompagnato da aspettative altissime: nella filmografia del regista, infatti, il predecessore It Follows, presentato nella Semaine de la Critique di Cannes 2015, è uno degli horror più efficaci e stratificati degli ultimi anni. Inoltre, più ancora di It Follows, il film di Mitchell è un oggetto spiazzante e indecifrabile: un neo noir dalla trama surreale e vagamente delirante, un gioco cinefilo post-post-moderno, un trip ambizioso che guarda a Lynch (Mulholland Drive), a Paul Thomas Anderson (Vizio di forma), a Polanski (Chinatown) e ai Coen (Il grande Lebowski) senza assomigliare fino in fondo (nel bene e nel male) a nessuno di questi ed è, con ogni probabilità, una “fuga psicogena” nello stato depressivo del protagonista, di cui raconta metaforicamente il catatonico trascinarsi nel mondo a seguito della rottura con l’ex fidanzata.

L’odissea è quella di Sam (un bravissimo Andrew Garfield), trentatreenne disoccupato e in balia degli eventi, sull’orlo dello sfratto e perseguitato da una madre insistente cui mente sulla propria condizione economica e lavorativa. Il meccanismo narrativo si innesca quando sparisce Sara (Riley Keough), vicina di casa che Sam aveva prima spiato a bordo piscina e poi conosciuto. La ricerca della fanciulla porta il giovane in un vortice di situazioni concentriche, di mondi sprofondati l’uno dentro l’altro, di party vacui e improbabili concerti rock, fino alla scoperta dell’esistenza di assurdi complotti esoterici e culti misteriosi legati a una setta di super ricchi. Due cose accomunano le varie situazioni: in primo luogo, la loro impalpabile e sfacciata inconsistenza, la supervacuità resa ancora più accentuata dalle musiche solenni e futilmente inquietanti del fedelissimo Richard Vreeland, aka Disasterpeace, che sembrano richiamare (con effetto straniante) le partiture hitchcockiane di Bernard Herrmann. In seconda battuta, la posizione di Sam: sempre osservatore quasi mai partecipante, costantemente nella posizione di confine di chi guarda incapace di agire, di decidere, di desiderare

Dove vuole arrivare Mitchell? Fuori tempo per essere semplicemente oggetto futile che “sta per” la futilità del mondo, Under the Silver Lake è un’opera molto più intelligente e consapevole di quanto possa apparire a prima vista e ben più di un accessorio esercizio di stile; infatti, nelle ultime battute, il regista ”piega” improvvisamente lo script verso una direzione inaspettata. Il finale del film, infatti, rimanda alla nostalgia per il rapporto tra Sam e la sua precedente fidanzata, facendo intuire come il viaggio “stonato” di Under Silver Lake sia in realtà un’efficace rappresentazione della malinconica ricerca del suo protagonista di un senso e un desiderio smarriti. [Simone Spoladori]


Schermata 2018-05-16 alle 22.49.12

LA VITA DI KENA

Primo film del Kenya a essere presentato nella selezione ufficiale di Cannes, Rafiki scardina tanti stereotipi legati al cinema africano, troppo spesso deprivato della sua forza originaria a causa della lunga trafila produttiva dei lab internazionali che gli permettono di esistere. L’opera seconda di Wanuri Kahiu dimostra che c’è la possibilità di preservare uno sguardo fresco e libero, in dialogo con il cinema europeo ma capace di conservare la propria radice culturale. Il paese che respiriamo seguendo la storia d’amore tra due adolescenti, figlie dei politici locali in gara per le vicine elezioni, è attraversato da forti contraddizioni: le donne sono ancora relegate al ruolo di mogli, anche quando avrebbero l’autorità per affermarsi; gli uomini sono scissi tra il seguire istanze comunitarie e il perseguire la propria fortuna personale; la città cresce accogliendo la natura circostante e verticalizzandosi in un allontanamento dalla terra.

Tra il cemento dei palazzi e gli ombrelloni di un chiosco, cresce l’amore tra l’intraprendente Kena (Samantha Mugatsia) e la sensuale Ziki (Sheila Munyiva), entrambe cresciute all’ombra di padri assenti, desiderose di vivere la loro prima storia d’amore. In un paese in cui l’omosessualità è vietata dalla legge, cosa per cui il film non potrà avere alcuna proiezione ufficiale, è facile immaginare il proseguo di una storia che declina in maniera più delicata gli immortali temi di Romeo e Giulietta. Ma, come spesso succede quando si guarda un buon film, a colpire non è tanto la trama ma la vita che trapela dalla regia energica di Wanuri Kahiu, che contrappone stilisticamente le due ragazze e l’ambiente in cui vivono, ripreso curiosamente dal basso verso l’alto. Il trionfo di colori che dominano nel film, a cominciare dalle treccine rosa e violette di cui si compone l’acconciatura di Ziki, trasportano la vicenda in una dimensione desiderante e solare, che la regista saprà non abbandonare neppure nella parte più tragica. Semplice, ma pieno di grazia, Rafiki è una delle piccole scoperte di Un certain regard.  [Daniela Persico]

CANNES 71: LIBERA NOS A MALO

CANNES 71: FELICE E PERDUTO

CANNES 71: HARD SENSATION

CANNES 71: SI SALVI CHI PUÒ L’IMMAGINE

CANNES 71: IL SOGNO DI DIAMANTINO

CANNES 71: IMMAGINI MANCANTI

CANNES 71: MATERIA BRUTA

LA SVOLTA DI CANNES