È un lungo applauso ad accogliere l’ingresso in sala di Lars Von Trier per la proiezione ufficiale del suo ultimo film, presentato a Cannes fuori concorso. E chissà se tra quelli che applaudivano c’erano i cento (così pare) che se ne sono andati inorriditi prima della fine… The House That Jack Built non è un film per pubblico dallo stomaco debole, ma chi si aspettava una passeggiata tra i fiori di campo? Ambientato nella costa nord orientale degli Stati Uniti (ma girato tra la Danimarca e la Svezia) durante la seconda metà degli anni ’70, è un viaggio nella mente di un serial killer interpretato da Matt Dillon, svelato oltre che nei suoi atti criminosi anche in tutte le sue idiosincrasie. Il tono beffardo della narrazione ondeggia tra truculenze da macellai e ironia nerissima, che quando prende il sopravvento contribuisce a segnare i momenti migliori: su tutti quello in cui Jack, afflitto da un disturbo ossessivo-compulsivo, torna ripetutamente sul luogo in cui ha strangolato una vedova convinto di aver lasciato tracce di sangue negli angoli più reconditi. Così come nel primo dei cinque omicidi che scandiscono il racconto, vittima Uma Thurman, finita con il cranio sfondato a colpi di crick dopo aver chiesto un passaggio sul ciglio di una strada di campagna per via dell’auto in panne.

Ma nel corso delle due ore e mezza complessive i tempi si dilatano all’inverosimile, tra lungaggini dialogiche e inutili inserti saggistici sulla genialità del male e la banalità del bene, secondo una modalità già sperimentata in Nymphomaniac. Particolarmente estenuanti i due frammenti centrali: quello con Riley Keough, incauta fiamma dell’assassino che viene barbaramente mutilata, e l’idillio familiare con moglie e figli sterminati a pallettoni durante un picnic (la sequenza che ha più indisposto il pubblico). Il compiacimento nello scioccare è tanto evidente quanto stanco, e Von Trier cela la propria impasse creativa tra sterili citazioni (persino da Don’t Look Back di Pennebaker!) e giochini metanarrativi che vorrebbero creare vertigini di senso ma si impantanano in psicologismi d’accatto e autobiografismi spicci. Il figliol prodigo sembra tornare a Cannes con la coda tra le gambe, facendo ammenda per la presunta misoginia e per le tirate neonaziste che l’avevano reso persona non grata al festival, mettendo in scena un alter ego che gode nell’infliggere tormenti agli altri ma finisce dritto all’inferno. Non c’è da credergli neanche per un istante, tanta è la furbizia sardonica con la quale si prende gioco dello spettatore, costretto all’ennesimo supplizio: non tanto quello figurativo legato alla messa in scena della violenza, quanto quello di un film castrante e in grado di annichilire qualunque forma di piacere (compresa quella dello sguardo). Un giorno bisognerà affrontare seriamente questa propensione al supplizio di tanto, celebrato cinema contemporaneo, trovarne le scaturigini e studiarne le propaggini.

Non si può chiedere al danese di essere all’altezza di Mario Bava, ma vedendo The House That Jack Built e la cella frigorifera in cui il protagonista allestisce la macabra conservazione dei corpi delle proprie vittime, viene in mente la traiettoria autoriale del grande regista che ha saputo condurre il genere slasher dalle origini di Sei donne per l’assassino alle derive divertitamente ciniche di Cinque bambole per la luna d’agosto e Reazione a catena, facendo, quasi 50 anni prima e molto meglio, quello che il danese si sforza malamente di fare qui. Ma vengono in mente anche Blood Feast di Herschell Gordon Lewis e The Human Centipede di Tom Six, entrambi migliori di questo. E che dire della parte finale, la visionaria (???) discesa agli inferi, se non che Von Trier forse farebbe bene a dedicarsi alla videoarte e alle pratiche installative? Magari sforzandosi di non scopiazzare Bill Viola. [Alessandro Stellino]


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ALTRI INFERNI

Al settimo giorno del Festival, i film hanno preso a dialogare tra di loro, lanciandosi messaggi oscuri da una sala all’altra, in cui gli spettatori transitano come anime dell’aldilà, ormai abbattute dal sonno e dalla fame. Così dall’abisso infernale sulla superficie dei quadri animati con cui si chiude The House That Jack Built di Lars Von Trier si passa a un altro viaggio nelle tenebre, Long Day’s Journey Into Night di Bi Gan, che in risposta fa proprio della durata del piano lo strumento espressivo in grado di calarci nella dimensione oscura.

In Kaili Blues, con il quale il giovane regista cinese è stato scoperto a Locarno, il protagonista era posseduto dalla memoria della moglie morta e cercava di liberare l’amato nipote da un legame nocivo, incappando in un paesino in cui la dimensione temporale ha perso ogni linearità. In Long Day’s Journey Into Night, ambientato sempre a Kaili, il protagonista ritorna a casa per fare i conti un recente omicidio, la morte del padre e il ricordo di una donna amata; seguendo (forse solo in sogno?) le tracce del passato, l’uomo riallaccia fantasmatiche storie del perduto amore e si ritrova in un’altra dimensione. È la notte più lunga dell’anno, il solstizio d’inverno, e forse solo alla fine del viaggio riuscirà a carpire l’essenza della sua peregrinazione.

Se il primo film aveva fatto scalpore per il piano sequenza di quarantacinque minuti, qui il regista porta a compimento le sue intuizioni, dando libero sfogo alla fantasia: abbandona la cifra realistica per osare un delirio onirico in cui diverse pene d’amore si intrecciano con la passione e la visionarietà del primo Wong Kar-Wai. Capace di far perdere allo spettatore le coordinate spazio-temporali, lavora sulla creazione di un’atmosfera perturbante che diventa ancora più fisica nel momento in cui il protagonista entra in un cinema, si mette un paio di occhialini 3D (e noi con lui) e inizia a guardare il film del proprio viaggio, un’ora di piano sequenza dall’impressionante elaborazione tecnica. In questa vertigine, che inizia con echi shakespeariani, l’inconscio del protagonista – che acquista una dimensione solo nell’accedere a un’ulteriore stadio della finzione – sperimenterà una discesa, lontana dalla catarsi.

Dimensioni alternative, vite perdute, false piste di costruzione dei nuovi domani: così Bi Gan definisce una propria linea poetica, nelle profondità di un piano in movimento, sublime finché saprà non farsi maniera di se stesso. [Daniela Persico]


Shoplifters-Hirokazu-Kore-eda

L’INGANNO

Un adulto e un bambino si aggirano per un supermercato, mettendo in scena un piccolo furto alimentare. Al cinema, immagini come quelle dell’esordio di Shoplifters di Hirokazu Kore-eda rievocano i trucchi strampalati dei clochard à la Charlie Chaplin. Delinquenti per la società, ma riscattati come padri e uomini di buon cuore dal grande schermo. Instillando immediatamente una credenza nello spettatore: stiamo assistendo a una storia di famiglia; questi due personaggi non possono che essere un padre e un figlio. E così, quando li seguiamo in una casa che ha l’aspetto di una baracca, le conseguenze di questo nostro credere emergono man mano che appaiono gli altri protagonisti. Kirin Kiki, tanto premurosa con la trovatella appena raccolta in strada dal padre e dal figlio, non può che essere la nonna. Sakura Ando, inizialmente spigolosa ma poi intenerita dalla piccola Juri, deve essere la madre. E così via.

Il vero inganno ordito dai ladri di Shoplifters non è nei confronti del mondo esterno, bensì verso chi pensa di assistere a un altro film (“l’ennesimo”, a detta di qualcuno) di Kore-eda sull’essenza dei legami famigliari, sull’irriducibilità delle parentele al puro dato biologico. Invece, in quella che si rivela una delle opere più dure del regista dai tempi di Nobody Knows, a essere sottratta non è una bambina, ma la nostra certezza di camminare su un terreno conosciuto. Con estrema grazia e precisione, Kore-eda costruisce per ogni personaggio un profilo credibile, fatto di dettagli appartenenti a un’esperienza universalmente condivisa. Eppure, la superficie uniforme della normalità è interrotta da cesure violente. Ferite fisiche – bruciature, gambe rotte, cicatrici derivate dall’autolesionismo – e scarti spietati del racconto, che rivelano una realtà meno conciliante delle apparenze. I personaggi sono tutti rappresentanti di un sottoproletariato in cui possono condividere la stessa dimora tanto gli operai e le dipendenti di una lavanderia, quanto prostitute, ladri e truffatrici. Il lecito e l’illecito sono attraversati dalla medesima povertà, cosi come identica è la necessità di mentire agli altri e a se stessi. Estranea ed estraniata dal mondo, la finta famiglia di Kore-eda rappresenta il nucleo di una società basata sulla menzogna, che rifiuta di guardare oltre le apparenze per non fare lo sforzo di mettersi in discussione.

Ma il vero dramma racchiuso nel film è la scoperta che questo sguardo distratto e superficiale appartiene anzitutto a noi spettatori. E che a farne le spese sono il nostro futuro e l’infanzia di Juri, riportata in una casa priva d’amore. [Francesca Monti]

CANNES: FELICE E PERDUTO

CANNES: HARD SENSATION

CANNES: SI SALVI CHI PUÒ L’IMMAGINE

IL SOGNO DI DIAMANTINO

IMMAGINI MANCANTI

CANNES 71: MATERIA BRUTA

LA SVOLTA DI CANNES