Per gli amanti delle facili catalogazioni e delle etichette immediate, Montparnasse – Femminile singolare è – non ne abbiamo dubbi – un film ostico, ondivago, se non irritante. Persino la plurivocità del suo titolo dà l’idea di una schizofrenia creativa difficile da irregimentare: in Italia i distributori hanno deciso di puntare sui tratti distintivi del personaggio principale, ovvero sul fatto che sia un essere umano di sesso femminile e che sia una persona tanto sola quanto “singolare” (nelle sue varie accezioni); per il mercato internazionale è stato invece scelto Montparnasse Bienvenue, spingendo più che altro sul quartiere in cui la protagonista Paula si ritrova come un alieno piombato dal cielo e sull’accoglienza mancata che la città di Parigi le offre. In originale, tuttavia, il gioco è molto più semplice: Jeune Femme, perché siamo di fronte alla storia di una giovane donna che non è ancora pienamente adulta ma che al contempo non si può più permettere di vestire i panni dell’adolescente.

Potremmo partire da qui: quello che in America è il sottogenere young adult, percorso di formazione umana e spesso avventurosa, persino a sfondo distopico (Hunger Games, Divergent, Maze Runner), totalmente scollato dalla vita reale, nell’esordio alla regia di Léonor Séraille è quotidianità semplice e irta di ostacoli, in cui l’ambiente in cui sopravvivere non è una ipotetica dittatura futura/futuribile ma il “normale” centro cittadino di una capitale europea. Ma questo banale recinto non può bastare, perché il percorso esistenziale di Paula non è quello ideale di una qualsiasi trentenne di oggi: Séraille tratteggia un unicum, caratterizzandolo con tratti distintivi in cui è pressoché impossibile immedesimarsi. Paula – interpretata da Laetitia Dosch, chioma fulva e una carriera che sta pian piano prendendo forma in Francia grazie a La battaglia di Solferino di Triet, Mon roi di Maïwenn e ad un’altra manciata di titoli – entra in scena dando testate alla porta di casa di qualcuno che non le vuole aprire: è il suo ex Joachim, artista che l’ha scaricata dopo averne fatto per 10 anni la musa prediletta. La ragazza rientra dal Messico, convinta di potersi rifugiare da lui, e si ritrova senza più alcun punto di riferimento, incapace di fare qualunque cosa che non sia essere se stessa (“Non sono brillante, ma sono onesta”). È il caos, e tutto concorre al caos: dall’energetico montaggio di Clémence Carré al catalogo di episodi paradossali e farseschi che si susseguono senza sosta, fino alla stessa figura della protagonista, debordante corpo (tragi)comico rigettato dalla società.

Paula è un foglio bianco, con cui Séraille gioca in fase di scrittura (chiedendo la complicità dello spettatore): può essere scambiata per una diciottenne, assunta all’improvviso come baby sitter nonostante non abbia alcuna referenza, confusa per una ex compagna di classe a cui non assomiglia per niente. Paula è tutti ed è nessuno, contiene moltitudini, ed è forse proprio questo lo scopo ultimo di Montparnasse – Femminile singolare: offrire non una identificazione individuale (relativa cioè al personaggio messo al centro della scena) quanto universale, propria di tutta una generazione. Le singole vicende sono personali e non replicabili, ma esiste per tutti (o quasi) una necessità: vivere solo nel presente, bypassando l’idea di un futuro edificabile, razionalizzabile. Come e meglio di una Amélie Poulain in piena nevrosi, Paula trova il suo equilibrio nella totale mancanza di equilibrio, vivendo un realismo per nulla magico. Ne mal sopportiamo le reiterate contraddizioni, le impulsività, la scomposta aggressività e il felpato vittimismo perché ci vengono sbattute in faccia senza alcun orpello narrativo, nude e tangibili. Montparnasse – Caméra d’Or a Cannes 2017 – non è una favola, e Paula non viene mitizzata o ammorbidita; potrebbe essere la nostra vicina di casa, un nostro caro amico. O, molto più semplicemente, potremmo essere noi.