Per la prima volta in concorso a Venezia, Carlos Reygadas porta al festival una storia d’amore trasfigurata dal suo stile sontuoso e totalizzante, sebbene più lineare ed empatico del solito: come già in Post Tenebras Lux, anche Nuestro Tiempo fa del grandangolo spinto, con le consuete aberrazioni ottiche che deformano, sfocano o punteggiano di riflessi l’immagine, lo strumento visivo per introdurci ai paesaggi maestosi della campagna messicana, dove Juan e Esther, marito e moglie con tre figli e quindici anni di storia insieme, gestiscono un ranch destinato all’allevamento di tori da corrida. Per arrivare alla coppia protagonista del film, tuttavia, si passa prima attraverso i giochi, gli umori e il sentire della generazione precedente, osservando l’eterna alterità tra maschile e femminile nell’innocenza di slanci infantili e adolescenziali, su cui sembrerebbe proprio l’affacciarsi della vita sessuale a gettare le prime, inquiete ombre dell’irriducibilità dei sentimenti. A intuire tutto questo sarà lo stesso Juan, spiando da dietro una finestra gli sguardi fugaci tra suo figlio maggiore e una ragazza sua coetanea. Juan, allevatore per mestiere, poeta di fama per vocazione, resta soprattutto un uomo che guarda.

D’altronde la tensione scopica del film – brama cioè di indirizzare lo sguardo e controllare, ma allo stesso tempo incapacità di spostare lo sguardo altrove – sembra letteralmente modellarne la direzione e le forme. Questo perché, pur nell’accordo di una relazione libera e aperta con suo marito, Esther prima si concede e poi probabilmente si innamora di un altro uomo, l’addestratore di cavalli Phil. Juan lo avverte anche quando la moglie dissimula l’ondata della nuova passione, Juan lo vede quando Esther inizia a “non stare bene” se non ha notizie dell’amante, Juan in fondo lo sa possibile da sempre, ma non riesce a farsene carico senza sentirsi in diritto di intervenire, modulare, e persino allestire la clandestinità della compagna, nella speranza che lei non lo abbandoni. Anche quando il racconto si sposta dal ranch a un metafisico concerto per timpani in un teatro d’opera, o all’astrazione di un atterraggio aereo che dal cielo riconduce alla terra, gli occhi del film sembrerebbero così coincidere sempre con quelli dell’uomo. Del maschio inutilmente geloso, dove la gelosia è proprio il sentimento che allontana la sofferenza perché illude che l’altra persona continui ad essere viva e presente. Lo sguardo dell’intellettuale che, per dirla con Barthes, tenta invano di ricondurre l’amore, monologico e maniaco, al testo, eterologico e perverso. L’amore si fa testo in un film che, magicamente, raccoglie i pensieri di Esther e di Juan attraverso le voice over degli stessi protagonisti, e talvolta dei loro figli, interpreti non coscienti delle loro confessioni.

Nuestro Tiempo, un titolo che ha a che fare con l’idea di durata e di fine, non è esattamente un film sulla separazione, ma sull’incubo del fading dell’altro, che appare senza durata e senza fine: Esther non scompare mai del tutto, e a Juan non resta che domandarsi cosa possa il suo amore di fronte alla sfumatura straziante del non essere più corrisposto. Una domanda che non è mai soltanto utilitaristica, ma anche etica: che diritto ho io di impedire all’altra questa nuova realizzazione di sé? Forse che i sentimenti non siano una questione tragicamente relativa? Davvero pensavo di essere il solo a poter generare quel suo sguardo di felicità? Domande coraggiose e sincere, in cui trova coerenza la suggestiva scelta del regista e della sua vera compagna, Natalia López (montatrice per il marito, per Amat Escalante e Lisandro Alonso), di interpretare i ruoli dei due protagonisti, circondati dai loro veri figli, in una curiosa giostra metarelazionale che conduce la realtà alla finzione.

Non sappiamo dire con certezza se Reygadas sia ancora capace degli slanci passati: film pieno di idee, in grado di costruire un ritmo unico alla messinscena degli eventi, Nuestro Tiempo vede le sue parti superiori al risultato complessivo. Ma è un’opera capace di affascinare e talora commuovere, specialmente quando segna la vanità della parola e del pensiero di fronte alla dimensione più biologica del mondo: quella da cui i sentimenti sono attratti e che, manco a dirlo, sono gli stessi tori a rappresentare per primi. Animali inquieti e misteriosi, nella cui immagine in lotta – Hemingway e Leiris testimoni – collimano le forze della vita e della morte, specchio della stessa attività erotica, degli impeti e delle cadute che illuminano le parti più oscure di noi stessi. [Marco Longo]


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L’UMANITÀ IN PRIMO PIANO

Ultima tappa di un percorso ormai ultraventennale che costituisce uno dei patrimoni più significativi della rinascita cinematografica del cinema dell’Estremo Oriente, Ni de Lian è un tassello importante della filmografia di Tsai Ming Liang, un “piccolo” film che porta avanti l’indagine sull’uomo e sul linguaggio cinematografico del grande autore taiwanese.

L’idea del film nasce dall’esperienza di The Deserted, progetto in realtà virtuale che Tsai presenta alla Biennale nel 2017. Un’esplorazione dell’animo umano e delle modalità attraverso cui l’uomo elabora la propria esperienza e il proprio vissuto, e di come questo bagaglio esperienziale lascia le proprie tracce sul corpo, attraverso il potente strumento del primo piano. Il primo sodale del regista è il suo attore feticcio Hsiao-Kang, che appare nell’ultimo di una lunga serie di primi piani di persone incontrate nell’arco di due mesi camminando per le strade di Taiwan. Poi, un anno fa, al progetto si unisce Ryuichi Sakamoto il quale, dopo aver visto brani del film, manda a Tsai gli inserti sonori minimali ma incisivi che si trovano nel film, portando il regista a comporre nuovamente, dopo 20 anni, un film con una colonna sonora. Infine, ogni inquadratura è accuratamente costruita dal punto di vista luministico e compositivo, richiamando ora opere precedenti dell’autore o di altri che hanno fatto del primo piano una marca stilistica personale, come Ejzenstejn, il cui spirito risuona a più riprese in alcune delle composizioni.

Ridotto al minimo il carico rappresentativo, eliminato ogni eccesso stilistico, rimane il silenzio che permette di entrare in ascolto e in risonanza con le storie del film. Alcune sono drammatiche, altre hanno sprazzi di comicità, complici anche le sorprendenti qualità istrioniche degli improvvisati interpreti, ma in ciascuna di esse percepiamo il respiro di un’umanità, la carica emozionale e vitale di persone che raccontano la propria vita ora con trasporto, poesia, coraggio, rimpianto, soddisfazione, sorpresa, malinconia. Poche volte come in questo film si fa sentire in tutto il suo peso l’inadeguatezza del cinema come medium di massa e strumento di intrattenimento nel rendere giustizia dell’individuo e del prezioso patrimonio della sua vita, un patrimonio al quale il cinema può evidentemente accedere quanto più si depura da eccessi, fronzoli e appariscenza.

Particolare peso, nell’instradare lo spettatore sul registro linguistico e ritmico del film, lo ricopre la prima inquadratura: una donna sui sessant’anni che, per parecchi minuti, rimane in silenzio, mostrando alla macchina solo le lievi increspature del viso. Solo dopo una leggera risata, che arriva come un tuono in mezzo alla placidità del mare al tramonto, Tsai proferisce parola e si rivolge alla donna. Attesa, un dinamismo sottile e ondivago che permea l’immagine, nessun desiderio di far emergere, nessuna paura del silenzio e del vuoto, costantemente colmato dalla pregnanza dei volti, tutti accomunati da una trasparenza che ci fa vedere l’anima viva e pulsante dell’uomo che vi si cela dietro. [Simone Moraldi]


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LA SOPRAVVIVENZA DELLE LUCCIOLE

Una nave di linea attraversa le onde di un mare grigio e invernale. Sanja (Ivana Vuković), giovane impiegata alle pulizie a bordo, abbandona il suo lavoro per fare ritorno a casa. Nel tragitto la accoglie una Genova fredda e inospitale. Cerca rifugio in quei vicoli dove giace tutt’ora l’eredità di passate migrazioni, e in cui oggi ne vivono delle altre: volti e lingue diverse, che non abbiamo ancora imparato a conoscere.

Dopo un girovagare senza meta nelle strade della città, Sanja sembra trovare finalmente ospitalità presso il dormitorio di un ente caritatevole gestito da un’anziana signora, incapace però di scambiare anche solo una parola nella lingua della giovane. Quello che è apparentemente un punto d’arrivo si trasforma tuttavia ben presto in un punto di partenza per la narrazione. Dagli interni freddi della stanza dove per qualche giorno Sanja trova ristoro, il montaggio ci porta verso un esterno rururbano, dove la vegetazione si sovrappone a un piccolo capanno ormai decadente. La voce di una radiolina ci ubica nuovamente nello spazio e nel tempo: Montenegro, Bijela. I cantieri navali che davano lustro alla comunità e lavoro a centinaia di operai hanno chiuso i battenti.

You Have The Night (Ti imaš noć), primo lungometraggio di Ivan Salatić (già a Venezia nel 2015 col cortometraggio Backyards) nonché primo film montenegrino selezionato alla Settimana della Critica, intraprende un viaggio lirico nel limbo di una comunità scossa dalla scomparsa di un mondo, sospesa tra l’avvento di un altro, ancora sconosciuto, e la diaspora delle sue genti.

Sullo sfondo della chiusura dei grandi cantieri navali affacciati sull’Adriatico, la vicenda umana di Sanja si intreccia con quella del compagno e della sua famiglia. La camera di Salatić, sempre fissa e distaccata, osserva la lenta disgregazione di una comunità, mentre il montaggio firmato da Jelena Maksimovic (già editor nei film di Ognjen Glavonić, uno dei maggiori talenti della nuova generazione di cineasti ex jugoslavi) ricerca nelle ellissi e nei vuoti tra una sequenza e l’altra il germe di una resistenza che si fa mistero. Nell’attesa di una notte che Luka (Luka Petrone), il fratello di Sanja, si prepara a vivere tra i boschi, le parole di resa pronunciate al giovane dal vecchio Momo (Momo Pićurić), ex lavoratore nei cantieri navali, in una sorta di passaggio di consegne, disegnano il campo di una nuova battaglia: «Io non ho più niente, tu hai la notte». Navigare nell’oscurità, come necessità, e da essa riemergervi, come lucciole.

Sui piloni di cemento armato dove poggiavano i giganti di ferro costruiti con lo sforzo e il sudore di centinaia di lavoratori di più generazioni, oggi i giovani del paese trascorrono le ore facendo gare di tuffi. Il glorioso cantiere intitolato a Veljko Vlahovic, figura di punta del socialismo titoista (di cui vediamo la statua nelle immagini d’archivio brillantemente inserite sul finire del film), è ormai destinato all’oblio, sacrificato sull’altare della globalizzazione. Ivan Salatić fotografa brillantemente l’ultimo anelito della periferia di un’Europa abbandonata. Tuttavia, in un mondo che cambia, c’è un’umanità che resiste all’idea di rimanervi prigioniera. [Alberto Diana]