Torniamo a soffocare fra le mura delle baracche di un quartiere fantasma di Lisbona, raggiunta troppo tardi dopo anni e anni di attesa da Capo Verde, palcoscenico di drammaturgie brechtiane celate negli antri di un presepe senza Dio. Tornano a scivolare sull’intonaco i polpastrelli callosi, mentre piccole candele votive puntellano un buio che avvolge ogni cosa e non la abbandona mai, dall’inizio alla fine.

Vitalina Varela narra la storia di un lutto, che per Pedro Costa sembra tuttavia più una condizione di vita che un semplice pretesto narrativo; lo dimostrano i corpi piegati che strisciano lungo i sentieri, o quelli abbandonati attorno a un tavolo spoglio; lo avvertiamo negli spazi chiusi di stanze repellenti, interni con soffitti alti appena due metri che sono come scatole vuote; lo riconosciamo nei quadri immobili di una camera ostinata, che non abbassa mai lo sguardo e non sa cedere a compromessi.

La lotta che la protagonista combatte contro un’impregnante amnesia è la stessa che da anni il regista ha scelto di portare avanti con il suo cast di compagni di vita, confermando il suo peculiare cinismo, lontano dall’individualismo elitario a cui oggi siamo abituati, ma che trova invece forma nel sacrificio di se stessi per la totale dissoluzione nel dolore degli altri. Per Pedro Costa questa condivisione è fondamentale anche nella prassi lavorativa: ogni film infatti è debitore della passione di ogni suo compagno, in questo caso ribadita addirittura dalla collaborazione della stessa Vitalina nella stesura della sceneggiatura.

Dopo Cavallo Denaro, con cui si era già aggiudicato il Pardo alla regia cinque anni fa, il regista torna in Concorso a Locarno con la sua opera più cupa e radicale, dove a gravare sul peso del silenzio di echi lontani è un’oscurità che avvolge ogni sequenza e che si rivela come la vera protagonista del film. I rari fasci di luce che attraversano la messa in scena forzatamente teatrale permettono al direttore della fotografia Leonardo Simoes di estrarre i corpi dalle tenebre, trasformandoli in figure che luccicano di nero pece, salvate per un istante da un diorama polveroso. Ma il continuo scambio che avviene fra corpi e spazio è un viaggio senza meta, dato che il vuoto che li circonda è il medesimo che portano dentro. Ed è proprio questa apatia che Vitalina prova ad arginare, cercando di ricostruire la casa del marito morto e provando a dare un senso alla caducità delle cose. [Davide Perego]


STORIE IN CONTROLUCE

Oroslan

Raccontare la storia di un essere umano è un’impresa estremamente complicata, nella misura in cui l’intento sia quello di non tradirne l’essenza più profonda. Da questo proposito nasce Oroslan del regista sloveno Matjaž Ivanišin, presentato nella sezione Cineasti del presente.

Ivanišin parte paradossalmente dalla morte di un uomo, di nome Oroslan, per narrarne la vita attraverso le testimonianze dei conoscenti, degli amici e dei parenti più vicini. Il film tuttavia non si limita a un semplice report narrativo, ma cerca piuttosto di affondare lo sguardo nell’atmosfera che ha circondato e attraversato l’esistenza di Oroslan, non risparmiando digressioni e grandi giri di osservazione sul mondo attorno, aprendo il sipario su una società frammentata e spesso molto introversa, come quella dell’entroterra sloveno. Questa frammentarietà drammaturgica è il segno evidente di una predilezione del regista per la potenza delle immagini, più che per la parola in sé, che nel film assume un ruolo importante, ma allo stesso tempo divisivo, che non funge da guida alla comprensione, quanto piuttosto da elemento in grado di restituire un atmosfera, il sentore di un ambiente. Dopotutto l’uomo è per la maggior parte il luogo che abita, l’influenza delle terre in cui viviamo entra in noi e spesso si impossessa della nostra identità, ed ecco che le azioni che compiamo, e a cui le persone che ci vivono accanto assistono, vanno a posarsi sull’identificazione di quel luogo, confermandone l’essenza o, con il tempo e la stratificazione di altre storie simili, cambiandolo.

Il paradosso più significativo di Oroslan è proprio questo: mettere al centro le storie minandone la potenziale linearità, preferendo un altro percorso, meno immediato forse, ma capace di individuare con coraggio un’altra via per la narrazione, in cui il microcosmo di un singolo individuo si apre al macrocosmo di una comunità, mutuando una simbiosi che vale sia per un remoto paesino della campagna slovena, sia per molte altre realtà in tutto il mondo. Ed è davvero il risultato migliore quello che, quasi in controluce, spunta da questo metodo, mostrando una terra, come quella slovena e per estensione quella balcanica, in cui tutti discretamente si rapportano con il dolore e la perdita quasi come se queste ultime non fossero più importanti di qualsiasi altro avvenimento che possa capitare sulla loro strada. Uomini silenziosi che isolati davanti a una birra in un bar guardano nel vuoto con allegra disperazione (direbbe Cioran), donne che giorno dopo giorno percorrono un lungo cammino per andare al lavoro sotto la neve, anche loro con lo sguardo spostato altrove, ed è proprio perché non sappiamo dove questo sguardo va a posarsi alla fine che rimaniamo incantati dalla malinconia di questi personaggi, che in seconda battuta si trasformano in testimoni della vita di Oroslan, che come un traghettatore postumo ci guida, attraverso strade di cui difficilmente altrimenti sentiremmo decantare la sgangherata poesia. [Mario Blaconà]


 L’ANIMA DEL REALE

oiseauax

Maya Kosa e Sergio Da Costa lavorano insieme da qualche anno. Dopo un esordio individuale attraverso alcuni cortometraggi – per Maya L’ingénieur et le prothésiste (2010), per Sergio Entrevista com Alviro Vilar da Costa (2009) e Snack-bar Aquário (2010) – si presentano insieme a Visions du Réel con Aux bains de la reine (2012) e il loro cinema plurale incomincia a prendere forma.

Non è per un vezzo filmografico che si cita qui l’esordio dei due cineasti, che poi continueranno insieme con Rio Corgo (2015),  Antão, o invisível (2017) e L’île aux oiseaux, attualmente in concorso al Festival di Locarno nella sezione Cineasti del presente; fin dall’inizio della loro collaborazione infatti i loro film hanno assunto un aspetto duale, mettendo sempre a confronto uno o più personaggi con un’alterità in cui si rispecchia la loro situazione personale.

Se in Aux bains de la reine tutto si svolge intorno a un’emigrata portoghese in Svizzera e al suo disorientamento nel momento in cui torna al paese natale, mentre in Rio Corgo prende forma una relazione dai tratti esoterici fra una giovane donna e un vagabondo in un villaggio portoghese, L’île aux oiseaux segue questa dialettica fra spazi, corpi e memoria in un centro di cura e riabilitazione di uccelli rapaci in difficoltà, il cui personale è costituito da uomini e donne che cercano di reinserirsi professionalmente dopo un periodo di crisi.

Ciò che rende particolarmente interessante e affascinante il nuovo film è il trattamento dei tempi e degli spazi attraverso i quali la vita nel centro viene raccontata: momenti spesso dilatati si diramano all’interno di spazi ristretti, dove i gesti e la scarsezza di parole dicono molto di più di una sceneggiatura ricca di dialoghi esplicativi. Essi vanno al di là della realtà filmata per rivelare il «reale», ovvero qualcosa di invisibile che si cela nelle pieghe del testo, nel silenzio di un corpo, nella parola captata, negli spazi «altri» dell’inquadratura, nei tempi di un montaggio che agisce come una cartina tornasole, mettendo in luce la fragilità (e la crudeltà) degli esseri, siano essi animali o umani.

In quest’atto di creazione documentaria, Maya Kosa e Sergio Da Costa si avvicinano dunque alla concezione cinematografica teorizzata da André Bazin, quella di uno strumento che, al di là della sua precisa meccanica di registrazione del mondo naturale, possiede la capacità ontologica di rivelarne l’essenza. E il loro lavoro è ben prezioso oggi, nel momento stesso in cui gran parte del cinema commerciale è ben lontano dalla vocazione che lo porti a captare e rendere visibile l’anima del reale. [Luciano Barisone]


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