Pur da prospettive e origini differenti, cinema e danza hanno sempre nutrito una silenziosa e proficua corrispondenza, intrecciando di tanto in tanto i loro percorsi nel tentativo, consapevole o meno, di abbracciare lo stesso afflato, quello per la concentrazione del gesto in movimento, al contempo racconto, forma e immagine interiore. Se oggi le pratiche emergenti della dance screen invitano studiosi e teorici ad approfondire gli scambi tra queste due arti, resta ineludibile l’estrema difficoltà di filmare la danza senza sacrificarla al linguaggio cinematografico, e viceversa portare il cinema oltre la documentazione distanziata e oggettiva, per intraprendere un percorso a ritroso che intercetti, trascendendo la superficie, le tensioni espressive del corpo e il loro farsi testo nel mondo.

Danzatore di formazione e carriera, Damien Manivel non aveva ancora esplicitamente dedicato un film a questa passata appartenenza: con Les Enfants d’Isadora, suo quarto lungometraggio presentato a Locarno nel Concorso Internazionale, il cineasta francese approccia sì un problema capitale nella teoria della danza, quello della sua trasmissione nel tempo, ma lo tematizza in un itinerario intimista e sottile, sotterraneo alle stesse immagini. Alludendo fin dal titolo alla morte prematura dei due figli di Isadora Duncan, la celebre danzatrice statunitense precorritrice della danza moderna che da quella tragedia elaborò l’assolo Mother, Manivel non si limita a indagare come un testo coreografico riviva a distanza di anni attraverso nuovi interpreti, ma più puntualmente riflette su come possa abitare e toccare la loro vita spirituale, alimentando la dimensione profonda di una stessa condizione umana.

Questo ambizioso disegno si realizza antifrasticamente in un film diaristico, che non solo evoca gli scritti e la voce della Duncan intorno alla genesi di Mother, ma letteralmente si frammenta in una successione di date e giorni indicati a tutto schermo, talmente fitti da diventare indiziari della volontà di rendere ellittica, liquida, ogni concatenazione temporale, per lasciare che i momenti minuti della vita di quattro donne, legate fra loro proprio nel nome del fantasma della Duncan, si riversino gli uni negli altri. Sibillina, la tensione della loro ricerca è dischiusa in forma processuale: prima analitica, attraverso lo studio che una giovane danzatrice compie sulle fonti dell’assolo e sulla sua labanotation, punto di incontro, in forma di partitura, tra la registrazione dei movimenti coreografici e della musica di Alexander Scriabin che li accompagna; poi relazionale, come ben sintetizzano le sessioni tra un’insegnante e un’allieva in preparazione di uno spettacolo, alla ricerca della densità del gesto, in dialogo con lo sguardo dello spettatore; infine emozionale, proprio attraverso gli occhi di una spettatrice che assiste all’assolo e se ne fa carico nel lungo ritorno a casa nel cuore della notte, per poi celebrarlo in un silenzioso e toccante voto al proprio personale lutto.

Pur arrischiandosi in un perfezionismo minimalista che sfuma ogni inquadratura delle stesse tinte grigio-azzurre, sempre punteggiate da tiepide pennellate autunnali, Les Enfants d’Isadora congela la maniera e la àncora a un traguardo di bellezza e rigore, refrattari al sentimentalismo. Il suo fascino risiede proprio nell’intuizione di incrociare arte e tempo nel nome di un dialogo con il dolore che fu di altri, e allo stesso tempo è di tutti, suggerendo attraverso le sue protagoniste quel senso di eterno presente che una delle pagine di Agota Kristòf così evocava: “Il tempo si lacera. Dove ritrovare i prati della mia infanzia? I soli ellittici rappresi nello spazio nero? Dove ritrovare il cammino che oscilla nel vuoto? Le stagioni hanno perduto il loro significato. Domani, ieri, che vogliono dire queste parole? Non c’è che il presente. Una volta nevica. Un’altra volta piove. Poi c’è un po’ di sole, un po’ di vento. Tutto ciò è adesso. Non è stato, non sarà. È. Sempre. Tutto insieme. Perché le cose vivono in me e non nel tempo. E in me tutto è presente.”

Per tre volte Manivel porta lo sguardo sulle mani delle sue danzatrici, proprio nell’atto di accarezzare la testa invisibile di un bambino perduto. Quelle mani sono le loro e sono quelle di Isadora Duncan, non c’è distanza, il tempo si apre alla trasmissione del gesto. [Marco Longo]


MI RIVOLTO DUNQUE SONO

ivana

Secondo lungometraggio di Ivana Mladenović, presentato nella sezione Cineasti del Presente, Ivana the Terrible mette in scena una vicenda autobiografica sotto il segno della finzione, coinvolgendo amici e parenti della regista nella riproduzione della realtà in chiave farsesca, ripercorrendo gioie e dolori di un’estate fatta di urla, tenerezze e riconciliazioni. Come il ponte di Trajan che domina la città di Kladovo, eternamente sospeso tra la Serbia e la Romania, la sua protagonista Ivana è una giovane donna sull’orlo di una crisi di nervi, divisa tra le due sponde del Danubio, a metà tra il bisogno di essere accettata e il netto rifiuto alla società tradizionalista che l’ha cresciuta. Tornata nel suo paese natale per problemi di salute, sarà costretta ad affrontare le aspettative della comunità e della sua famiglia, le voci malevole intorno alla sua vita sentimentale e alla relazione con un ragazzo molto più giovane, e il chiacchierato scompiglio provocato dai suoi eccentrici amici musicisti.

La scelta di inscenare vicende realmente accadute non è nuova a Mladenović, che nel suo debutto Soldiers. Story from Ferentari, presentato in anteprima mondiale a Toronto nel 2017, ha diretto l’amico Adrian Schiop ispirandosi al suo romanzo autobiografico, una storia d’amore tra un antropologo e un ex galeotto ambientata nella comunità rom di Bucarest. Rimanendo in questa dimensione relazionale la regista riesce nuovamente a incorniciare momenti dal calore domestico e intimo, accompagnandoli a un ritmo radicalmente tragicomico, a tratti grottesco.

Alla farsa privata di Ivana, creatura metamorfica e capricciosa, colta nel pieno del processo di distacco e riappacificazione con le proprie origini, fa da contraltare la farsa pubblica dei rappresentanti politici di Kladovo, che la scelgono come madrina del festival che omaggia l’amicizia serbo-romena. Ivana “la terribile” si trasforma così nel classico figliol prodigo, fino ad arrivare a rappresentare la migliore ambasciatrice dell’orgoglio cittadino, senza però evitare imbarazzi e disordini, grazie agli amici con cui condivide l’atteggiamento scanzonato e provocatorio che ne anima azioni e scelte. La vicenda personale della regista si intreccia con quella della città, caratterizzata da insabbiamenti, sensi di colpa e vergogna, e dalle rappresentazioni ideali di sé, che tradiscono patetismo e ipocrisia.

Eccessiva, umorale, sopra le righe, Ivana ricorda la detestabile protagonista di un altro film presentato a Locarno nel 2018, la Alice T. di Radu Muntean, altro esponente della new wave romena, che tratteggia un mondo femminile ribelle e fragile attraverso gli occhi di una giovane ragazza dalla grazia appassionata e tagliente. Scegliendo di rappresentare ancora una volta personaggi collocati al di fuori del sistema di norme tradizionali, in una società profondamente conservatrice che la vorrebbe sposata e felice, Mladenović dipinge se stessa con l’ironia di chi tenta di esorcizzare le proprie debolezze, senza paura di risultare ridicola e di spogliarsi di fronte al proprio sguardo impietoso, in un moto oscillatorio tra tenerezza e violenza, nel tentativo di una riconciliazione (impossibile) con il suo mondo imperfetto. [Carlotta Centonze]


LEGGI ANCHE

LOCARNO 72: INSIEME TRA LE IMMAGINI


LOCARNO 72: SETE DI LIBERTÀ


LOCARNO 72: CANI ARRABBIATI


LOCARNO 72: RESISTENZA SENZA TREGUA


LOCARNO 72: FANTASIA E ATTESA