Non ci sono incertezze nell’esordio al lungometraggio di Carlo Sironi: Sole (prodotto da Giovanni Pompili, già dietro all’interessante e sottovalutato Il più grande sogno di Michele Vannucci) porta già nel titolo, semplice, sobrio ma emblematico, l’orizzonte a cui tende questo lucido primo film che parte da un fatto di cronaca per offrirci il ritratto di una generazione.

Ermanno (Claudio Segaluscio, di struggente bravura) è un adolescente come tanti, cresciuto nella periferia romana, senza alcun progetto per la vita a venire. Così quando gli si presenta l’occasione di guadagnare qualche soldo, riconoscendo la paternità di un bambino che lo zio in seguito adotterà, non si fa troppe domande e aderisce al progetto. Ma già dal primo incontro con la ragazza incinta, Lena (la conturbante Sandra Drzymalska), un’adolescente polacca più scafata di lui ma ugualmente senza piani, Ermanno inizia a percepire che non uscirà indenne dall’esperienza.

Al contrario del macchiettistico Una famiglia di Sebastiano Riso, che sfruttava l’argomento delle adozioni clandestine per sfociare in un eccesso di dramma e psicologismi, qui si intuisce fin dall’inizio, dalla scarna e puntuale sceneggiatura scritta dal regista insieme alla sodale Giulia Moriggi e Antonio Manca, che ogni riferimento realistico offre solo l’accesso per raccontare altro. L’appartamento spoglio, dove i due ragazzi sono costretti alla convivenza, annulla qualsiasi riferimento alla contemporaneità per lasciare sgombre le inquadrature (in 1:1,33), gabbie nelle quali lottano le fisicità adolescenziali dei due protagonisti. I loro volti sono pure maschere, svuotate di ogni desiderio, che poco a poco si animano in un progressivo affiorare dell’anima, del puro sentimento, che caricherà di attese quel domani che per un attimo torna a essere gravido di promesse.

È in questa scelta che si delinea la grandezza di un giovane autore come Sironi, che siamo pronti a scommettere diventerà uno dei nuovi talenti del cinema italiano: Sole non è soltanto il nome di una bambina, ma rappresenta il puro desiderio di essere amati, o forse soltanto di essere presi in considerazione dignitosamente come persone. Contro quei genitori assenti, contro quegli adulti la cui paternità è intesa unicamente come possesso, contro una società che relega i giovani ai “lavori sporchi” riducendo prima i loro desideri e inseguito le loro aspettative. Non c’è spazio per il ritratto di una periferia, in un film che si adagia sugli scenari spogli e pasoliniani di Nettuno, ma tende continuamente all’astrazione propria di Robert Bresson (e proprio ai suoi “modelli” sembra ispirarsi la recitazione di Segaluscio) e al rigore del cinema giapponese, composto e sublime nella fotografia cerulea dell’ungherese Gergely Poharnock (già al fianco della Golino in Miele ed Euforia).

Presentato nella sezione Orizzonti a Venezia76, ma avrebbe meritato il Concorso, Sole si delinea come il miglior esordio italiano degli ultimi anni, maturo e coraggioso al tempo stesso, capace di flirtare con quel realismo che ha da tempo contrassegnato il cinema italiano da festival, senza però farsene imbrigliare, ma spingendo a strappare il velo della verosimiglianza per far risorgere una visione empatica e politica del presente. Una rarità.