Quando ero solo con lei, riuscivo a rilassarmi completamente. Dimenticavo gli aspetti fastidiosi del mio lavoro, i tanti piccoli problemi per i quali non trovavo una soluzione, le cose assurde che si andavano a immaginare persone assurde. Per qualche ragione lei aveva questa capacità. Le parole che diceva non avevano quasi senso, ma quando scivolavano nelle mie orecchie riuscivano a calmarmi e a farmi sentire a mio agio, come quando si guardano delle nuvole che scorrono lontano nel cielo. Anch’io le raccontavo tante cose, però mai nulla di importante. Non c’era nulla di cui dovessi parlarle. Sinceramente. Non c’è nulla di cui si debba mai parlare.

Questo estratto dal racconto breve di Murakami, Granai Incendiati, sembra essere il vero nucleo da cui è partito Lee Chang-dong per costruire Burning: storia di Jong-su, un aspirante scrittore che vede la sua discreta e sommessa esistenza venire completamente travolta da Hae-mi, una giovane ragazza, vecchia conoscenza di un’infanzia lontana, talmente esile da non sembrare neanche mai esistita, come del resto molti anfratti di questo racconto, messo in scena attraverso chiare e ravvicinate inquadrature, ma portato avanti su un intreccio volutamente appannato, dove nulla è mai veramente confermato. L’arrivo di Ben, un ragazzo di bella presenza e benestante, grazie a un lavoro che lui stesso definisce un gioco, e la cui natura non viene mai rivelata, getta definitivamente il film in un’incosistenza fatta di inquietudini e ricerche senza esito, che trasforma i protagonisti in maschere di una modernità che si muove attraverso pulsioni e che abbandona i sentimenti, visti quasi come retaggio di un passato collettivo figlio di un’epoca scomparsa.

Spostando l’ambientazione del racconto dal Giappone alla Corea del Sud, il regista spinge su un consumismo asiatico deformante, di cui ormai Seul è un simbolo ancora più chiaro di Tokyo, attingendo allo stesso tempo da un immaginario occidentale che si muove tra letteratura e cinema. Il Jong-su di Burning potrebbe essere sovrapposto al Michele de Gli Indifferenti di Alberto Moravia, al Meursault de Lo Straniero di Albert Camus, ma anche ai giovani terroristi di Nocturama di Bertrand Bonello e ai ballerini di Climax di Gaspar Noè, e in generale all’estensione artistica che rappresenta un mondo protetto e isolato ormai da decenni da un cieco benessere, che nasconde e reprime la rabbia egoistica dei suoi più giovani abitanti e che trasposto in Corea del Sud rende ancora più evidente il paradosso, come viene malinconicamente ma allo stesso tempo impietosamente suggerito da un lento movimento di macchina laterale, che si ferma, ondeggiante, su un orizzonte lontano, al di là del quale comincia un mondo opposto, di necessità e realtà: la Corea del Nord.

L’ambito che corrisponde alla nozione di spazio in Burning parte da un elemento quasi infinitesimale, come il microcosmo del giovane scrittore insoddisfatto Jong-su, che si unisce ad altri due frammenti, le vite di Hae-mi e Ben, che incontrandosi creano un attrito che trasforma l’ambientazione da locale a globale, scoprendo un Paese travolto da un vuoto atavico, da una mancanza di identità drammatica e tossica che se scavata rivela tutta la sua disperazione. Da qui l’idea di Chang-dong di sostituire i granai del racconto di Murakami con le serre: un elemento artificiale a cui è applicato un calore indotto, che divampa fino a bruciare.

Ma una serra è anche un elemento opaco, qualcosa che da fuori mostra solo i contorni confusi del suo interno. “La vita per me è un mistero”, confessa Jong-su a Ben, un mistero banale ma spietato, che si oppone al disvelarsi dei rapporti più naturali, come quello tra figlio e genitori, o come quello di due ragazzi innamorati. Lo Spirito del Tempo in Burning non permettere di assurgere alle necessità logiche più elementari, che dovrebbero guidare la crescita di un giovane uomo o di una giovane donna, formando di conseguenza una generazione sospesa in un presente non ben identificato, in cui Hae-mi piange ricordando quell’infanzia i cui racconti sono forse inventati, o forse no, o riportando alla mente un tramonto visto in Kenya, disperato anch’esso, nella sua inevitabile bellezza.

Da qui parte l’incendio, e in questo senso il sottotitolo della versione italiana rimane approssimativo, perché non è l’amore a bruciare, ma il vuoto, il vuoto lasciato a se stesso, che non permette nessuna costruzione nell’animo di chi lo abita. Quelle pulsioni sostituite ai sentimenti e legate a questo vuoto si svelano allora in tutta la loro estrema pericolosità, perché, come in Nocturama il manichino che brucia è sintomo di qualcosa di tragico che sta per accadere, così in Burning il monito intravisto dietro il telo opaco di una serra in fiamme può svelare qualsiasi cosa, perché se in questo nostro presente la divisione manichea tra bene e male non ha più senso di esistere, il suo esatto opposto, un relativismo morale spento e quasi robotico, può far implodere una brutalità e una violenza a cui a stento la modernità riuscirebbe a sopravvivere. Stiamo molto attenti, ai nuovi mostri che stiamo creando.