Citando il primo principio della termodinamica, due giovani discutono su come l’energia si trasformi incessantemente senza mai esaurirsi, e che quella che anima i loro corpi non potrà che convogliarsi all’infinito in nuovi esseri viventi, ad esempio una patata, o preferibilmente un pomodoro. È forse il quadro più eloquente tra i tanti, talora brevissimi, che compongono il nuovo film di Roy Andersson, About Endlessness, presentato a Venezia in concorso. Nulla di nuovo nel cinema dell’autore svedese che con Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza aveva conquistato il Leone d’Oro appena cinque anni fa e oggi torna con un film ancora più essenziale, quasi un catalogo di idee scartate dalla sua trilogia sull’essere un essere umano, per la prima volta vagamente autoreferenziale, all’apparenza superfluo.

Il dispositivo estetico resta infatti lo stesso: attraverso una controllatissima procedura di messinscena per campi fissi, con piena profondità di campo su desolanti interni domestici, scorci di città o paesaggi transitori, le figure emaciate e quasi clownesche di Andersson vengono immortalate nel pieno della loro ineludibile miseria esistenziale: un sacerdote perseguitato dalla crisi della sua vocazione, uomini e donne di mezza età prede dell’inspiegabile che sovrasta la loro routine, un dentista pronto ad abbandonare un paziente troppo chiassoso, e ancora Hitler nel bunker polveroso del proprio fallimento, fino a una coppia di amanti che fluttua in volo, proprio come nel celebre dipinto di Marc Chagall, questa volta sopra la Colonia bombardata dall’operazione Millennium, simbolo di una civiltà martoriata, senza speranza di futuro. Si ride a denti stretti, come spesso Andersson ci ha abituati a considerare legittimo di fronte a queste vignette minuziosamente costruite, senza morale certa, pronte a scivolare l’una dentro la successiva senza soluzione di continuità: ma il rischio a questo giro è di farlo per eccesso di familiarità, quasi per abitudine verso i toni surreali e grotteschi di un anziano designer della rappresentazione alle prese con un’opera minore.

Eppure sembra altrettanto importante non licenziare il film con troppa fretta. Come per il titolo, che compare dopo una successione pazientemente disordinata di puntini bianchi su sfondo nero, About Endlessness resta un oggetto da scomporre e ricomporre abbracciando l’invito all’interpretazione, all’immersione non solo intellettuale. Come si possono dunque approcciare le inquadrature e le scene di Roy Andersson? Appellandosi alla libertà di ricognizione di cui l’occhio gode all’interno di un piano sequenza in profondità di campo, come avrebbe detto Bazin? O piuttosto percependo in maniera piuttosto ineluttabile la sensazione che ogni frammento dell’immagine, il minuto elemento a sfondo del décor, il singolo pixel del singolo frame, stiano per collassare su se stessi, in una contrazione asfissiante che mette in crisi l’architettura perfezionista della superficie, per spalancarsi sull’assurdo? Il mondo che Andersson continua a mettere in scena, ripetendolo e ripetendolo – la ripetizione è prassi di un disperato infinito – non sembra del resto dirci granché della nostra esperienza, se non che essa è insufficiente a persuaderci di essere vivi. E se l’assurdo pulsa sotto la rappresentazione di un mondo con cui non abbiamo alcun reale rapporto, allora l’escrescenza intellegibile del nostro immaginario, quella che nei film di Andersson si fa gesto e parola, non sarà altro che incomunicabilità, e impossibilità di liberarsene.

Guardando About Endlessness viene da pensare a una galleria di anime perdute, una via crucis, un inferno desaturato, carico dei rovinosi strascichi della Storia. E dal momento che i gironi infernali sono il teatro di una pena senza fine, come salvarsi è la domanda meno retorica che si può porre all’autore, dietro alle facili lusinghe di una risata effimera. Forse appellandosi all’idea che esista un qualche luogo sconosciuto dove la vita è in piena comunicazione con se stessa, e per pura induzione energetica reagisca al collasso. Magari è proprio da quel paradiso che giunge la voce femminile che ci guida tra i personaggi del film, facendo il possibile per rendere amabile la loro vulnerabilità, e lasciando sperare che la nostra realtà non sia soltanto un’impalcatura priva di senso.