Chi è Celeste? Una bambina della media borghesia che canta spensierata nei super8 familiari? Un’adolescente in grado di far sentire la sua voce di fronte alla follia di un coetaneo? Una spavalda visionaria che presagisce il Male e offre un sollievo attraverso la sua angelica voce? Una mamma-bambina che non ha mai superato il trauma del ritorno alla vita? Vox Lux, secondo film di Brady Corbet (che aveva esordito con il controverso L’infanzia di un capo), porta nel titolo l’ideologia di massa a cui sottostà l’Occidente, incarnata da una cantante pop, capace di risorgere dalle proprie ceneri come un’ammaliante fenice.

Diviso in due blocchi speculari (Genesi e Rigenesi), il film mette in relazione la carriera di successo della protagonista con tre gesti di terrorismo, spartiacque nella sua scalata verso il consenso. Appena quattordicenne (interpretata dalla delicata e potente Raffey Cassidy, già protagonista di Il sacrificio del cervo sacro di Lanthimos) si trova a fronteggiare l’assalto alla sua scuola da parte di un compagno armato, a cui saprà rispondere con una canzone pronta a diventare una hit. Il crollo delle Torri Gemelle corrisponde all’allentamento del rapporto simbiotico con la sorella maggiore (Stacy Martin), primo simulacro a doversi fare da parte per lasciarle tutto il palcoscenico. Il gesto singolo di una cellula su una spiaggia croata sancirà la definitiva affermazione della stella (ormai nelle movenze esibite di una Natalie Portman, totalmente trasformata nel portamento), dopo un periodo di disintossicazione, e la sua siderale distanza da una figlia (di nuovo Raffey Cassidy) che è copia di se stessa adolescente. Un destino da fronteggiare: in una società incapace di rispondere al Male, l’unico anticorpo al terrorismo sembra riposto in questa Sacerdotessa e nei suoi ritornelli, in cui le parole amore, perdono e speranza diventano un mantra in un’esibizione che sconnette significante e significato, svelando la causa di un malessere che si incarna nei gesti sovversivi del fuoricampo maschile.

Scritto come la rielaborazione contemporanea di Faust, di cui gradualmente diventano più espliciti i riferimenti (ma il primo – bellissimo – sta nel racconto di un sogno in cui Celeste corre in un tunnel senza fine superando incurante le spoglie di se stessa in differenti stadi della vita), Vox Lux è stato nel 2018 una delle scoperte della competizione alla Mostra del Cinema di Venezia, rivelando l’accuratezza di una costruzione formale che sa condensare in pochi elementi un racconto distopico del nostro tremendo presente, nel magma di un linguaggio cinematografico che mescola archivi privati e pubblici, permettendosi di omaggiare il cinema maledetto di Gus Van Sant. Senza coscienza ma affamata di vita, Celeste ripete incessantemente i gesti di una danza che impara da bambina e presto diventa il suo calvario, a causa dell’incidente che le ha leso la colonna vertebrale. Prigioniera di un patto con il demonio che le ha suggerito le parole di quel Nuovo Testamento, professato nel suo abbagliante spettacolo.

Ma Vox Lux, che prende le sembianze di un lucido film sul pop contemporaneo, è soprattutto un’opera ambiziosa che tenta di fare i conti con le trasformazioni della società occidentale, assetata di esperienze radicali e totalmente persa nella capacità di elaborarle in pensiero, avendo smarrito la consapevolezza della propria posizione. Non c’è un deserto in cui vagare fino alla fine dei propri giorni come in Faust, bensì un’inquadratura gremita di una massa consenziente, incapace di rispondere all’urgenza storica dei nostri tempi. Ammalianti simulacri di noi stessi, duplicati ad ogni nuova genesi, ma impotenti di fronte al crollo della Storia.