Benedetta è imprigionata nella sua immagine, e vuole fuggire da una società che la vede solo come tale, in un luogo altro, che forse non esiste, se non nella sua mente.

Nel suo documentario Beniamino Barrese filma la madre, l’icona della moda e del femminismo italiano Benedetta Barzini, percorrendo ogni ruga del suo corpo e ogni sua espressione fugace, alla ricerca dell’identità di una donna che ha sempre oscillato tra oggettivazione del corpo femminile e la sua negazione assoluta e instancabile, attraverso la militanza politica che a partire dalla fine degli anni ’60 l’ha resa una delle testimoni più importanti della denuncia alle prevaricazioni di genere.

La figura malinconica, coraggiosa e sfuggente di Benedetta, che si divide tra insegnamenti ispirati da una nuova visione del corpo femminile e set fotografici che ancora oggi, a 76 anni, la vedono protagonista, si muove anelando costantemente una fuga, a cui il film stesso si allinea, prigioniero di un’inquadratura da cui tenta sempre di liberarsi, perché ingabbiato da una società che confonde la potenza profonda dell’immagine con l’appiattimento reazionario dello spettacolo, di cui l’idea di corpo femminile, immaginato e deformato dall’occhio maschile, è ancora avamposto.

Gettata in un mondo che non riesce più a sopportare, la madre cede alle lusinghe della cinepresa solo per amore del figlio, ma la sua rabbia, il suo rancore e la sua stanchezza respirano attraverso ogni inquadratura sporca e ravvicinata che Beniamino porta avanti quasi con ostinazione, annullando qualsiasi grado si separazione, separazione che Benedetta reclama tuttavia sempre più disperatamente, amareggiata dall’impossibilità di rappresentare veramente il reale.

Quella che in altri contesti potrebbe essere facilmente scambiata per mera speculazione teorica, in La scomparsa di mia madre assume invece una concretezza spiazzante: il richiamo dei ricordi riportati in vita dagli interrogatori discreti tra madre e figlio e dal repertorio delle trasmissioni televisive cui la Barzini ha spesso partecipato, concorrono al ritratto di una donna che per tutta la vita ha cercato di essere considerata una persona, al di là dell’appartenenza di genere, ma la cui rivendicazione identitaria è stata spesso soffocata proprio dal suo ambiente lavorativo, che conduce l’immaginazione del corpo femminile sotto l’esatta richiesta delle aspettative maschili.

Ecco allora che l’impossibilità di sfuggire al potere che si perpetra da quarant’anni nella società occidentale, radicalmente invisa alla protagonista, deflagra nella dichiarazione di una scomparsa fittizia messa in scena da Beniamino, proprio perché la soluzione reale, che si spinge oltre quella compatibile con l’esaurimento di un arco drammaturgico, è l’annullamento di ogni estensione ontologica della vita, di ogni spettacolo che imprima un corpo su una bidimensionalità che, per quanto sincera, è congenitamente fragile e quindi passibile di sfruttamento.

Anti-eroina frustrata e stanca di un mondo che fa della contraddizione non la sua bellezza, ma un limite da ritorcere contro se stessa, Benedetta Barzini emerge dall’occhio anelante di risposte del figlio Beniamino come una figura fuori dal tempo, per propria scelta autonoma e rigorosa, perché di fronte al nulla anche il cinema del reale non può che uscire sconfitto, rigettato indietro dall’impossibilità di essere totalmente sincero. E allora, forse, non resta che chiudere l’obiettivo e cercare altrove.