Con il suo secondo lungometraggio O fim do Mundo, presentato in agosto a Locarno e in questi giorni nel Concorso Internazionale Lungometraggi del Milano Film Festival, il regista svizzero Basil Da Cunha torna a girare nello slum portoghese di Reboleira, proseguendo l’esplorazione girovaga e ibrida di un cinema che spazia dal noir al documentario, attraverso il racconto notturno di un mondo sommerso, all’alba della sua scomparsa.

Dopo otto anni trascorsi in un istituto di correzione minorile, l’adolescente Spira torna a casa, dove niente è più lo stesso. Lo slum sta per essere demolito, e Spira lo attraversa come un angelo vendicatore, creatura di tenebra segnata da un destino inesorabile di esclusione senza seconde possibilità. Da Cunha dipinge una gioventù spezzata, costretta a sognare un futuro criminale o a rinunciare alla pianificazione di un avvenire certo, tra sparatorie e amori adolescenziali.

Trasferitosi a Reboleira da più di dodici anni, il regista ha ambientato diversi cortometraggi e il suo primo lungometraggio After the nightpresentato a Cannes nel 2013, proprio nel cuore dello slum. La comunità capoverdiana ai margini di Lisbona segue regole proprie, lontano dalle istituzioni ufficiali, e la vita di quartiere è scandita da rituali, feste e liti furiose all’insegna della stretta convivenza e della condivisione forzata. Reboleira è un dedalo brulicante e affollato, un microcosmo violento attraversato da rari momenti di apertura e respiro, nella festa e nella danza, nella musica che interrompe un lutto e nell’assurdità di gesti inaspettati.

O fim do Mundo conferma la predilezione di Da Cunha per una messinscena istintiva e spesso pronta all’improvvisazione, in attesa della manifestazione di un reale che rappresenta una scelta e una vocazione. I volti si susseguono, incastonati nelle luci rosse e azzurrine delle abitazioni anguste, illuminati dai fari di un’auto, dai fuochi d’artificio durante una partita di calcio, in un gioco di ombre e riflessi che esalta i chiaroscuri della splendida fotografia curata dallo stesso Da Cunha e da Rui Xavier.

Con l’intenzione di cogliere le ultime ore di una realtà di per sé nascosta agli occhi dei più, Da Cunha riesce a superare i confini invisibili che separano lo slum da Lisbona e a restituirne una rappresentazione lontana dai manicheismi tipici delle narrazioni criminali, cogliendo lo spirito di un luogo spietato in piena libertà. Nel tentativo di imitare il naturale scorrere del tempo, scandito da incontri casuali e conversazioni quotidiane, O fim do Mundo rischia tuttavia di perdersi nei meandri di una sceneggiatura ondivaga, indecisa sulle scelte da prendere lungo la strada. Nonostante la bellezza straziante delle immagini, il film di Da Cunha non riesce a svincolarsi fino in fondo dall’ossessione di un reale troppo angusto, e proprio come i suoi protagonisti vaga poeticamente in cerca di una possibile direzione.